Poesia Italiana del 1700

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Paolo Rolli è stato il maggior esponente dell'Arcadia, quel movimento poetico italiano sorto nel '700. Il programma dell'Arcadia ha i suoi ideali precursori in alcuni poeti che già nel Seicento disdegnavano il concettismo barocco, al quale rimproveravano la stravaganza nella scelta degli argomenti e le cadute di gusto.
Essi si impegnarono a ridare dignità e vigore al modello petrarchesco e teorizzano una poesia piacevole, basata su temi sinceri, non convenzionali, e al tempo stesso di un'originalità non esasperata. Tra coloro che interpretano con particolare sensibilità i motivi ai quali si è accennato e che anticipano le istanze di rinnovamento degli Arcadi, occupano un posto di rilievo Gian Vincenzo Gravina e Francesco de Lemene (che, in maturità, tenderà a proporre argomenti dal tono moraleggiante e sentenzioso).

La data di nascita del movimento si fa risalire al 5 ottobre 1690, quando un gruppo di intellettuali e scrittori in polemica con il "malgusto barocco", fonda a Roma l'Arcadia, un'Accademia Letteraria che costituisce per molti aspetti l'espressione più importante della poesia del '700.

I fondatori dell'Arcadia sono quattordici: Gian Vincenzo Gravina, Giambattista Felice Zappi, Giovan Mario Crescimbeni, Lorenzo Magalatti, Vincenzo da Filicaia, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Ludovico Antonio Muratori, Giambattista Vico.

L'Arcadia si propone un rigido cerimoniale e dichiara la sua fedeltà alla tradizione bucolica, rilevabile nel nome stesso, che è quello della mitica regione greca abitata da poeti-pastori; i soci assumono pseudonimi d'origine pastorale e il luogo di raduno viene chiamato Bosco Parrasio. L'Accademia ha come insegna la siringa di Pan coronata di alloro e pino e per protettore gesù bambino perché "secondo la tradizione, i pastori furono i primi ad adorarlo"; come patrona o basilissa, la Regina Cristina di Svezia, al cui salotto letterario erano appartenuti alcuni dei fondatori.

Anche se i cerimoniali pastoriali dell'Arcadia suscitarono già all'epoca critiche e parodie (1), l'Arcadia ha una funzione importante nella storia della Letteratura Italiana: regolò in modo organico quell'orientamento verso la poesia bucolica promosso dal Sannazaro (2), la cui prima manifestazione si era avuta sul finire del '500 con i drammi pastorali "Aminta" del Tasso e "Pastor fido" del Guarini, e inoltre l'Arcadia compie un'opera capillare di organizzazione della cultura, perché apre succursali ovunque e raggiunge zone rimaste ai margini del dibattito intellettuale o addirittura escluse da esso come l'Abruzzo, la Sardegna o il Trentino. Alla magniloquenza barocca l'Arcadia contrappone modi espressivi limpidi e scorrevoli, che valorizzano la chiarezza del lessico e della sintassi e tendono a dare eleganza e nitore ai versi; il motto degli Arcadi potrebbe essere "correttezza e leggiadria": per gli Arcadi la poesia deve essere uno strumento piacevole che abbia però il vero come oggetto e scopo.

La produzione arcadica ha come primo modello Petrarca; seguono i poeti greci Pindaro, Anacreonte, Teocrito, Orazio e Virgilio.
I temi fissi sono quelli idilliaco-pastorali, che si risolvono in immagini semplici e circoscritte, in piccole scene aggraziate, ma prive di un reale spessore e di scavo psicologico; anche i momenti di maggior tensione emotiva si alleggeriscono e si stemperano nel gusto sentimentale; del resto il difetto della poesia Arcadica era quello di vedere il tutto come un piacevole ornamento e un pretesto mondano e galante.

Tuttavia, in seguito a differenti vedute, l'Arcadia si scinderà in due: un gruppo di fuoriusciti, guidati dal Gravina, fondano l'Accademia dei Quirini, che però avrà vita breve e sarà riassorbita nell'Arcadia alla morte del Gravina stesso (1718). Le maggiori personalità della poesia del tempo furono Pietro Metastasio e Paolo Rolli. Derivazioni arcadiche si avranno anche nel Leopardi, nel Manzoni e nel Carducci.

Infine, parlando di Arcadia, si deve ricordare che anche in musica il tema delle stagioni e l'arte descrittiva ha innumerevoli riprese e basterà citare Vivaldi.

Qui di seguito riporto i versi più belli di Paolo Rolli



"Elegie alla primavera"

O amica degli amanti, primavera,
dolce principio de' miei puri affetti,
cui forse oblio non porterà mai sera,
teco una volta sola i miei diletti
nacquero insieme con l'erbett'e i fiori:
ahimè, chi sa che in vano io non t'aspetti!
Dal verde bosco fra gli opachi orrori
grato era il legger sulle prische carte
le vaghe istorie degli antichi amori,
già da i latini eterni ingegni sparte,
e da quelli che dopo Italia ornaro
con lo splendor della poetic'arte;
sul margine d'un rio garrulo e chiaro,
ove l'ombre cadean da un'elce annosa,
quanto mai grato era il seder del paro,
e quivi invèr la fresca aura odorosa
volger il viso e tesser lieti insieme
vari discorsi di piacevol cosa!
[...]
Ma se a te giunge e il tuo bel volto scorge
e teco parla, sol poich'è partita,
che tacque ciò che dir volea, s'accorge.
E s'io la sgrido poi perché smarrita
siasi dinanzi a te, ch'eran, risponde,
i più cari momenti di sua vita.
Altri così, che d'eloquenza abbonde,
avanti a re cui preparò gran cose,
vinto dal regio aspetto si confonde.
Or che le vaghe impallidite rose
del tuo viso riveston quel colore
che sul verde degli anni d'Amor vi pose,
deh fa' che sazio di lor vita il core
parta da te sovente! In vano è nato,
se vive chiuso in folta siepe un fiore.


"Nel partir dal patrio suolo"

Nel partir dal patrio suolo
con Amor pur meco viene
la memoria del mio bene
che m'è forza abbandonar;
a Partenope men volo,
indi solco il mar Tirreno;
e afferrando il tosco seno,
rendo grazie a' dei del mar.
Varco i gelidi Appennini,
Adria scorro e il suol lombardo,
e dovunque o penso o guardo
veggio e sento Amor con me;
ma l'orror de' gioghi alpini
lo sgomenta e lo ritiene:
la memoria del mio bene
vien, ma seco Amor non è.
[...]
Vaghe ninfe manierose
veggo in riva a i galli fiumi,
vive, allegre, nere i lumi,
lusinghiere e tutte ardir:
colorite, spiritose,
movon l'animo a vaghezza;
ma d'Amor non va la frezza
dove nascon i sospir.
[...]


"Solitario bosco ombroso"

Solitario bosco ombroso
a te viene afflitto cor
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in quest'orror.
Ogni oggetto ch'altrui piace,
per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
sono io stesso in odio a me.
La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante, è forse qui?
Ahi! la cerco in ogni loco;
e pur so ch'ella partì.
Qunte volte, o fronde grate,
la vostr'ombra ne coprì!
Corse d'ore sì beate
quanto rapido fuggì!
Dite almeno, amiche fronde,
se il mio ben più rivedrò;
ah!che l'eco mi risponde,
e mi par che dica: "No".
Sento un dolce mormorio;
un sospir forse sarà:
un sospir dell'idolo mio,
che mi dice: "Tornerà".
Ah, ch'è il suon del rio, che frange
tra quei sassi il fresco umor;
e non mormora, ma piange
per pietà del mio dolor.
Ma se torna, vano e tardo
il ritorno, oh dei! sarà;
ché pietoso il dolce sguardo
sul mio cener piangerà.


"Ruscelletto, a far soggiorno"

Ruscelletto, a far soggiorno
teco io torno, sai perché?
A sfogar crudel tormento
col lamento vengo a te.
Sai che assiso in questa sponda
presso all'onda meco un dì,
Silvio al credulo mio core
giurò amore, e dir s'udì:
"Questo rio tornando al monte
la sua fonte rivedrà
pria che manchi, o pastorella,
la mia bella fedeltà"
[...]


Qui qualche altro autore

In effetti, per essere oneste, il '700 italiano non brilla per la Poesia, tranne qualche eccezione (Monti, Alfieri, Foscolo...)
in quanto al giorno d'oggi, specie per i "poeti minori", tutto suona "anacronistico" se non "ridicolo" (certi sonetti di atmosfere bucoliche e di ninfe e dee amoreggianti nei boschetti). Però, questi versi che ho trascritto, mi erano piaciuti perché in qualche modo erano abbastanza oscuri, quasi un preludio al Romanticismo Nero.
Assolutamente fantastica la Poetessa Diodata Saluzzo Roero, con una Poesia che anticipa di molto le atmosfere gotiche del 1800 sui castelli in rovina!


Giuseppe Parini

"La caduta"

"Quando Orion dal cielo
declinando imperversa,
e pioggia e nevi e gelo
sopra la terra ottenebrata versa [...]"


"Il Giorno: La Notte"

Ma la notte segue sue leggi inviolabili e declina con tacit'ombra sopra l'emisfero; e il rugiadoso piè lenta movendo rimescola i colori vari infiniti, e via gli sgombra con l'immenso lembo di cosa in cosa; e suora de la morte, un aspetto indistinto, un solo volto al suolo ai vegetanti, agli animali, ai grandi ed a la plebe equa permette; e i nudi insieme e li dipinti vasi de le belle confonde, e i cenci e l'oro: né veder mi concede all'aere cieco qual de' cocchi si parta, o qual rimanga solo all'ombre segrete; e a me di mano tolto il pennello, il mio Signore avvolge per entro al tenebroso umido velo.


Ludovico Savioli Fontana

"...Così velate e pallide, in neri manti avvolte, per l'aria bruna appaiono le afflitte ombre insepolte..."


Diodata Saluzzo Roero


"Rovine"

Ombre degli avi
per la notte tacita al raggio estivo
di cadente luna,
v'odo fra' sassi diroccati fremere,
che il tempo aduna incerte l'ombre nella vasta
ed arida strada segnata dall'età funesta,
tremante, affretto che dei prischi secoli
l'orror sol resta.
Oh come brune l'alte cime
incurvansi de' larghi muri,
ove penetra appena di Luna
un raggio,
che la dubbia e pallida luce
qui mena perchè ferrate le finestre
altissime, ed è merlata la superba torre?
[...]
Pensiero funesto,
in me chi mai ridestasti?
Fuggiam dalle fatali alte rovine.
Raggio di notte,
tu la via rischiarami
fra sassi e spine.


***

Luca Antonio Pagnini

"L'Inverno ovvero Dafne"

[...] Muse, mio dolce amore,
i vitrei fonti abbandonate
e voi, ninfe e silvani,
ghirlande di cipresso a me recate,
voi i lacrimosi amor d'idali mirti
fat'ombra al rio,
frangete gli archi al suolo,
qual già in morte d'Adone,
e su quel marmo sensibile al dolor
con gli aurei dardi, inutil peso
ormai scolpite un carme:

"Natura cangi aspetto, e per dolore
in tenebroso velo gemmano e terra e cielo
... Non v'ha riparo de' suoi vari incanti
natura si spoglia in fosche nubi
s'involve il sol, le desolate piante
mostrano il gel, che i rami imperla e sparso
di vizze fronde è il suo funereo letto." 


Note:

(1) Giuseppe Baretti li definiva "fanfaluche" e "quegli amanti d'inutili notizie, che, non sapendo come adoperar bene il tempo, lo impiegano a imparare delle corbellerie, e che bramano di essere informati di quella celebratissima letteraria fanciullaggine chiamata Arcadia"

(2) Poeta del '400; ne riporto qualche verso

Sovra una verde riva
di chiare e lucide onde
in un bel bosco di fioretti adorno,
vidi di bianca oliva
ornato e d'altre fronde
un pastor, che 'n su l'alba appiè d'un orno
cantava il terzo giorno
del mese inanzi aprile:
a cui li vaghi ucelli
di sopra gli arboscelli
con voce rispondean dolce e gentile:
et ei rivolto al sole,
dicea queste parole:
- Apri l'uscio per tempo,
leggiadro almo Pastore,
e fa vermiglio il ciel col chiaro raggio,
mostrane inanzi tempo
con natural colore
un bel fiorito e dilettoso maggio,
tien più alto il viaggio,
acciò che tua sorella (1)
più che l'usato dorma,
e poi per la sua orma
se ne vegna pian pian ciascuna stella: (2)
ché, se ben ti ramenti,
guardasti i bianchi armenti.
Valli vicine, e rupi,
cipressi, almi et abeti,
porgete orecchie a le mie basse rime;

[...]

Mentre per questi monti
andran le fiere errando,
e gli alti pini aràn (3) pungenti foglie;
mentre li vivi fonti
correran murmurando
ne l'alto mar che con amor li accoglie:
mentre fra speme e doglie
vivran gli amanti in terra [...]


(1) riferito alla Luna
(2) acciò che le stelle via via la seguano
(3) avranno


Come notturno ucel nemico al sole (1)
lasso, vo io per luoghi oscuri e foschi,
mentre scorgo il dì chiaro in su la terra;
poi quando al mondo sopravien la sera,
non com'altri animai (2) m'acqueta il sonno,
ma allor mi desto a pianger per le piagge.

Se mai quest'occhi tra boschetti o piagge,
ove no splenda con suoi raggi il sole,
stanchi di lacrimar mi chiude il sonno,
vision crude et error (3) vani e foschi
m'attristan sì, ch'io già pavento a sera,
per tema di dormir, gittarmi a terra.

(1) della luce solare
(2) esseri viventi
(3) fantasie, immaginazioni


è questo il legno (1) che del sacro sangue resperso
(2) fu.
Nel benedetto giorno che fuggì vinto, con paura e scorno,
quel falso, antico, alpestro e rigido angue (3).
Qui il mio Signor lasciò la spoglia esangue tornando al suo celeste alto soggiorno, e scolorissi il santo viso adorno, come purpureo fior, che inciso, langue.


(1) la Croce
(2) cosparso
(3) il Serpente, ovvero il Diavolo


Ecco che un'altravolta, o piagge apriche, (1)
udrete il pianto e i gravi miei lamenti;
udrete, selve, i dolorosi accenti
e 'l tristo suon de le querele (2) antiche.
Udrai tu, mar, le usate mie fatiche,
e i pesci al mio lagnar staranno intenti;
staran pietose a' miei sospiri ardenti
quest'aure, che mi fur gran tempo amiche.
E se di ver amor qualche scintilla
vive fra questi sassi, avran mercede (3)
del cor, che desiando arde e sfavilla.
Ma, lasso, a me che val, se già nol crede,
quella ch'i' sol vorrei, vèr me (4) tranquilla
né le lacrime mie m'acquistan fede? (5)

(1) spiagge soleggiate
(2) lamentele
(3) pietà
(4) verso di me
(5) fiducia


Introduzione a Pietro Metastasio

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Fra gli obiettivi dell'Arcadia vi fu quello di procedere alla riforma dei generi letterari, ma mentre per la commedia e la tragedia il tentativo non approdò ad esiti concreti, restando una pura esercitazione teorica, un risultato di gran rilievo fu raggiunto con la riforma del melodramma, che diventa l'espressione più completa della cultura italiana settecentesca e l'unica di risonanza europea.
Nel corso dei Seicento il melodramma si era snaturato, tradendo lo spirito e le direttive della Camerata de' Bardi: il testo aveva perso autonomia rispetto alla scenografia e alla musica, l'atmosfera intima e delicata era scomparsa e il tema d'amore, che costituiva il nucleo centrale dei primi melodrammi, restava ormai in ombra, soprattutto dalle parti comiche e farsesche. Un primo passo per riportare il melodramma alle forme originarie fu compiuto da Apostolo Zeno, ma la riforma più articolata e organica, che segue al tentativo di Zeno, si deve a Pietro Metastasio.

Pietro Trapassi, che adotterà poi il nome di Metastasio, nasce a Roma il 3 gennaio 1698; prende gli ordini nel 1714 e nel 1718 entra nell'Arcadia con il nome di Artino Corasio, ottenendo gran successo con la sua prima lirica, "La Primavera". Nel 1724 è già celebre in tutta Italia e nel 1730 in Europa. Si trasferisce a Vienna alla corte di Carlo VI con l'incarico di "poeta cesareo", al servizio dell'Imperatore. Muore a Vienna nel 1782.

Le opere del Metastasio escono in 10 volumi, tra il 1780 e 1782 e la stagione viennese è segnata da alcuni capolavori come "La clemenza di Tito", "L'olimpiade", "Attilio Regolo". Accanto ai testi teatrali vanno ricordate le rime, i sonetti, le canzonette, le arie.

In ogni figura dei suoi personaggi l'autore designa in modo esemplare una virtù: i suoi personaggi sono dominati dalle passioni o posti davanti a contraddizioni insanabili alle quali reagiscono con eroica dignità. Nel mondo psicologico descritto dal Metastasio, a ben vedere, tutti i personaggi si assomigliiano, perché rispondono ad un analogo schema di sentimenti e conflitti interiori.

Il Metastasio fu interprete di un mondo che aspirava allo svago, al decoro e alla galanteria, e riteneva importante che l'opera arte si adeguasse al gusto del pubblico; tuttavia in lui è viva, seppur confusamente, la percezione che quel mondo è in declino (e infatti la Rivoluzione Francese è sul punto di spazzarlo via). I drammi e i conflitti sono volutamente fittizi e spettacolari; del resto il teatro ha la prerogativa di far sembrare le favole più vere del vero ed offre perciò una sede ideale per la rielaborazione fantastica dei sentimenti umani.

Applicando questi principi, il Metastasio riesce a creare un delicato equilibrio tra l'ispirazione eroica che gli deriva dalla formazione classica, il sobrio moralismo razionalistico dell'epoca e i motivi galanti, cari all'ambiente cortigiano.

Il registro arcadico del Metastasio raggiunge il punto più di più alta ricercatezza nelle rime, nelle quali, ancora una volta, i caratteri distintivi dello stile sono l'armonia e il decoro del versi dolci e fluidi, che traducono in toni di sentita partecipazione motivi intimi e sentimentali.


Qui di seguito vengono riportate alcune celebri ariette. Nella tradizione del melodramma settecentesco l'aria costituiva un intermezzo musicalmente libero che interrompeva il succedersi dei "recitativi" ossia delle parti cantate secondo una linea melodica convenzionale, a cui erano affidati il dialogo e lo sviluppo dell'azione scenica. L'aria aveva il compito di condensare in una sintesi il significato fondamentale della vicenda, di trarre una morale e indicare una verità universale; la sua forma quindi era sempre epigrammatica e sentenziosa.


Da "Artaserse" Atto I, scena VI

Sogna il guerrier le schiere,
le selve il cacciator;
e sogna il pescator
le reti e l'amo.

Sopito (1) in dolce obblio,
sogno pur io così
colei, che tutto il dì
sospiro e chiamo.

(1) addormentato


Da "Catone in Utica"

è follia se nascondete,
fidi amanti, il vostro foco: (1)
a scoprir quel che tacete
un pallor basta improvviso,
un rossor che accenda il viso,
uno sguardo ed un sospir.

E se basta così poco
a scoprir quel che si tace,
perché perder la sua pace
con ascondere il martìr? (2)


(1) passione
(2) nascondendo la pena



Da "Semiramide"

Il pastor, se torna in Aprile,
non rammenta i giorni algenti; (1)
dall'ovile all'ombre usate (2)
riconduce i bianchi armenti
e le avene (3) abbandonate
fa di nuovo risonar.

Il nocchier, placato il vento,
più non teme o si scolara (4)
ma contento in su la prora
va cantando in faccia al mar.


(1) gelidi
(2) all'ombra consueta degli alberi
(3) zampogne
(4) impallidisce


Walter Binni, uno dei massimi specialisti di letteratura settecentesca, così commentava l'opera del Metastasio:

"Tutte le qualità del poeta metastasiano sono da considerarsi in relazione alla poetica del melodramma, come nuovo genere teatrale che ripristinerebbe le condizioni della tragedia greca musicale e cantata. Il Metastasio intese che il melodramma corrispondeva a fondamentali termini del gusto e della sensibilità arcadica, e invece di rifiutarlo come facevano i teorici maggiori dell'Arcadia si preoccupò di configurarlo in modo che le esigenze espressive e teatrali del suo tempo non soffocassero lo sviluppo della essenziale vena poetica e melodica e che la stessa musicalità e melodia non sopraffacessero le esigenze espressive e poetiche."

"DIDONE ABBANDONATA"

Trama: Didone, vedova di Sicheo, ucciso da suo fratello Pigmalione re di Tiro, fuggì in Africa, dove edificò Cartagine. Fu richiesta in moglie da molti, soprattutto da Iarba re dei Mori ma Didone rifiutò sempre, per prestar fede al defunto marito.
Intanto, giunge Enea, naufragato a causa di una tempesta, e viene ristorato e accolto da Didone, che se ne innamora.
Ma gli Dei comandano ad Enea di andarsene da Cartagine, per proseguire verso l'Italia ed Enea parte; Didone, disperata, si uccide.
Ovidio narra che Iarba si impadronì di Cartagine dopo la morte di Didone e che la sorella della regina, Anna, fosse anch'essa invaghita di Enea.
Il Metastasio segue la tradizione di Ovio con il personaggio di Anna, chiamandola Selene, e introduce Iarba sotto le mentite spoglie di Arbace, come falso ambasciatore di Iarba, mentre Araspe, il confidente di Iarba, è innamorato di Selene.


ATTO PRIMO, SCENA III

DIDONE: Parte così, così mi lascia Enea!
Che vuol dire quel silenzio? in che son rea?
SELENE: Ei pensa abbandonarti. Contrastano in quel core, né so chi vincerà, gloria ed amore.
DIDONE: è gloria abbandonarmi?
OSMIDA: (si delusa) Regina, il cor d'Enea non penetrò Selene. Dalla reggia de' Mori [i Mauri, abitanti della Mauritania, oggi Marocco] qui giunger dee l'ambasciatore Arbace...
DIDONE: Che perciò?
OSMIDA: Le tue nozze chiederà il re superbo.

[...]

ATTO PRIMO, SCENA VIII

ARASPE

Empio! L'orror che porta
il rimorso d'un fallo anche felice,
la pace fra' disastri
che produce virtù, come non senti?
O sostegno del mondo

[...]

ATTO SECONDO, SCENA XI

DIDONE: Incerta del mio fato
io più viver non voglio. è tempo ormai,
che per l'ultima volta Enea si tenti.
Se dirgli i miei tormenti,
se la pietà non giova,
faccia la gelosia l'ultima prova.
[...]
Con alma forte,
come vuoi, sceglierò Iarba o la morte.

ATTO TERZO, SCENA VI

SELENE: Senti: se a noi t'involi,
non sol Didone, ancor Selene uccidi.
ENEA: Come?
SELENE: Dal dì ch'io vidi il tuo sembiante,
celai timida amante
l'amor mio, la mia fede;
ma, vicina a morir, chiedo mercede:
mercé, se non d'amore,
almeno di pietà; mercè...
ENEA: [...] Con generosa brama, 
fra i rischi e le ruine,
di nuovi allori il crine
io volo a circondar

ATTO TERZO, SCENA XII

DIDONE: [...] Osmida, corri, vola sul lido, aduna insieme
armi, navi, guerrieri;
raggiungi l'infedele,
lacera i lini suoi, sommergi i legni:
portami fra catene
quel traditore avvinto;
e, se vivo non puoi, portalo estinto.

ATTO TERZO, SCENA XVII

IARBA: [...] E pur, Didone, e pure
sì barbaro non sono, qual tu mi credi.
Del tuo pianto ho pietà; meco ne vieni.
L'offese io ti perdono,
e mia sposa ti guido al letto e al trono.
DIDONE: Io sposa d'un tiranno,
d'un empio, d'un crudel, d'un traditore,
che non sa che sia fede,
non conosce dover, non cura onore?
S'io fossi così vile,
saria giusto il mio pianto.
No, la disgrazia mia non giunse a tanto.
IARBA: In sì misero stato insulti ancora?
Olà, miei fidi andate:
s'accrescano le fiamme. In un momento
si distrugga Cartago; e non vi resti
orma d'abitator che la calpesti.

ATTO TERZO, SCENA XVIII

[...] DIDONE: Solo per vendicarmi
del traditor Enea,
che è la prima cagion de' mali miei,
l'aure vitali io respirar vorrei.
Ah! faccia il vento almeno,
facciano almeno gli Dei le mie vendette;
e folgori e saette,
e turbini e tempeste
rendano l'aure e l'onde a lui funeste.
Vada ramingo e solo; e la sua sorte
così barbara sia,
che si riduca ad invidiar la mia.

ATTO TERZO, SCENA XIX

OSMIDA: Crescon le fiamme e tu fuggir non curi?
DIDONE: [...] Dunque perché congiura
tutto il ciel contro me, tutto l'inferno?

SCENA ULTIMA

No, no, si mora; e l'infedele Enea
abbia nel mio destino
un augurio funesto al suo cammino.
Precipiti Cartago,
arda la reggia, e sia
il cenere di lei la tomba mia.

(Dicendo le ultime parole, corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia, e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo, che si sollevano alla sua caduta)




ALTRO APPROFONDIMENTO tratto da



La poesia del Settecento è essenzialmente strumento della comunicazione sociale. Per tutto il Settecento, quale che sia il genere o lo strumento espressivo utilizzato (lirica, epistola, favola, satira, poema didascalico, versi dialettali) i componimenti poetici sono indirizzati ad un pubblico preciso, in precisi contesti sociali, con intenti quando non edonistici, gnomici, polemici, didattici, scientifici.
Lungo tutto il secolo l'opera in versi, come quella pittorica o musicale cui essa è strettamente legata, concorre alla più generale funzione dell'attività artistica in una società aristocratica: quella di allietare ed adornare la vita quotidiana, fornendo alla sensibilità e all'immaginazione una descrizione piacevole di oggetti, scene di vita, eventi, situazioni, sentimenti.

Poesia, musica e pittura: il Settecento contempla se stesso

Si tratti di descrivere la leggiadra bellezza di una donna, l'eleganza del suo abbigliamento, la sontuosità di un convito, la freschezza di un bosco nell'ora più calda dell'estate, o si tratti di rievocare un addio e vagheggiare un incontro, di indagare uno stato d'animo, descrizione, vagheggiamento e analisi sono il risultato di un rispecchiamento.
Nei versi dei suoi poeti, questa società contempla se stessa, i propri riti, piaceri, costumi: si compiace della propria rappresentazione; per usare un verso, si potrebbe citare Frugoni con "e l'arte dell'ornamento\pregio accrescendo va"

In questo atteggiamento contemplativo si collocano le innumerevoli scene di vita quotidiana, mondana o intima che il lettore di Poesia Settecentesca troverà e che riconoscerà per averle già vedute nelle scene dipinte del Guardi, del Canaletto, del Longhi o nelle musiche di Pergolesi, di Cimarosa, di Paisiello (a questi nomi aggiungo Vivaldi. Nota di Lunaria)

Questa poesia offre diletto e ornamento anche quando lo sguardo dell'autore diventa più critico e si muta in caricatura: la donna civetta, l'innamorato geloso, il cicisbeo, la saccente, il letterato dormiglione, il nuovo ricco: una galleria di tipi e figure (si potrebbero aggiungere anche i personaggi del teatro di Goldoni, specialmente "La locandiera". Nota di Lunaria)

Sono numerose le testimonianze della diffusione di testi lirici musicati: non solo alla corte di Londra, dove, a dire del Rolli, "le belle ninfe" inglesi, in gita sul Tamigi, "l'ariette cantano d'Italia bella\e in così dolci labbra, dolcissima\fassi la musica e la favella", ma anche i gondolieri di Venezia e le donne artigiane.

Non vi è dubbio che la celebre accademia Arcadia, fondata a Roma nel 1690, abbia esercitato la maggiore influenza sul piano nazionale nella formazione di un gusto poetico unitario: essa operò come centro unificatore oltre che prepulsore dell'esercizio poetico, coordinò la diffusa abitudine a fare versi e a raccoglierli.

L'Arcadia romana seppe formulare un modello di poesia e un programma letterario, che, muovendo dal rifiuto e dalla severa condanna al gusto barocco, indicato come principale bersaglio polemico, gli contrappose principi di ordine, chiarezza, decoro sufficientemente indeterminati da soddisfare una diffusa esigenza di rinnovamento e insieme riassorbire l'articolata e composita eredità secentesca.

Le ragioni più vere del successo della poetica arcadica, tuttavia, sono da ricercarsi, più che nei modelli poetici proposti, nel fatto che i suoi principi, per quanto generici, corrispondevano ad esigenze profonde di rinnovamento intellettuale e culturale prima ancora che artistico e letterario. Dalla seconda metà del Seicento il pensiero razionalistico, in tutta Europa, in modo particolare in Francia e in Italia attraverso l'influenza francese, aveva educato le menti a principi di metodo, di chiarezza, di non contraddizione, che non potevano non influire sul piano del gusto e della sensibilità estetica.

Tuttavia, le immagini liriche dell'Arcadia rischieranno di diventare stereotipo: il paesaggio si trasforma in scenario, un prato, un rivo, un colle, un bosco popolato di ninfe, pastori, capri, pecorelle; le figure umane sono atteggiate al riposo all'ombra di alberi frondosi che le riparano dalla vampa del sole o intenti a gesti rituali - suonano flauto, cetra o zampogna - si specchiano nella fonte, raccolgono o compongono serti di fiori, finché un temporale improvviso turba tanta idilliaca serenità.

Caratteri ripetitivi hanno anche situazioni emotive come la dichiarazione amorosa, il rifiuto d'amore, il dolore dell'addio al momento della separazione, la pena della lontananza e della solitudine, il rimpianto e il ricordo dei momenti lieti, la gioia del ritorno.
Una canzonetta del Crudeli registra una sorta di catalogo di oggetti arcadici.
Ma il carattere ripetitivo di temi e situazioni non deve trarre in inganno: la campagna, la vita agreste, il sincero amore della natura si traduce in immagini di animata e vivida concretezza.
A conferire autorità alla proposta arcadica concorse tutto il peso del suo prestigio l'esempio della tradizione bucolica greco-latina, offrendo insieme al lessico tecnico la conferma dei principi di semplicità, chiarezza, perspicuità. In età arcadica il modello greco-latino si impone soprattutto attraverso la costituzione di un codice lessicale: alle voci della lingua poetica italiana si accompagna un repertorio di nomi propri della tradizione bucolica: Clori, Corilo, Egle, Dori, Dafne, Dafni, Egeria, Ide, Galatea, Fille, Fillide, Fileno, Nerea, Nigella, Nice, Nisa, Tirsi, ma anche di toponimi classici: Acheronte, Stige, Ida, Parnaso, Latmo, Delo, Delfo, e di figure mitologiche: Venere con le Grazie, Cupido e gli Amorini, Bacco, Fauni, Satiri.

Nota di Lunaria: si potrebbe far notare che in Italia è sempre mancato, tranne qualche eccezione (rinascimentale, barocca e ottocentesca) un gusto per il macabro, l'orrido e il cimiteriale. Anche nella poesia arcadica non c'è quasi mai un riferimento sepolcrale; riferimenti notturni e cimiteriali che invece si sviluppano in Inghilterra, prima con poeti come Parnell, Young, Gray, poi con gli autori e le autrici del romanzo gotico. Infine, non dimentichiamoci dell'enorme influenza che ebbero opere come "Il Visionario" di Schiller e "I canti di Ossian" di MacPherson.
Gli inglesi hanno sempre amato le atmosfere orride e sepolcrali, e i  Cradle of Filth, specialmente nei primi cd, hanno scritto testi gotici e cimiteriali, e non a caso, sono una band inglese...
Però, non dimentichiamoci che una delle più belle e immortali celebrazioni di una donna sepolcrale, con capelli corvini, è proprio "Fosca" dell'italiano Tarchetti.
D'accordo, non è famoso come Poe, ma Tarchetti rientra in pieno nei cantori delle donne dai lunghi capelli corvini! E la sottoscritta, donna dai capelli corvini, ha sempre apprezzato più Tarchetti con la sua Fosca che non "le celebri eroine di Poe"...