Tommaso Grossi


Nato a Bellano, nei pressi di Como, nel 1790 studiò dapprima in seminario, a Lecco, senza dimostrare alcuna inclinazione per la carriera ecclesiastica. Nel 1810 si laureò in legge a Pavia e nel 1815 ottenne il titolo di avvocato. Morì nel 1853.


Da "Ildegonda" Parte III (1820)

I

è il dì de' morti; taciturna e nera
regna la notte ancor nel firmamento;
addormentata è la natura intera;
sol con lo squillo lamentoso e lento
invita de' defunti alla preghiera
la campana maggiore del convento;
al prim suon le monache già deste
il cilicio si cingono e la veste.


II

E un picciol lume nella man raccolto,
uscte dalla povera celletta
ad una, a due, a tre col vel sul volto
passano i foschi corridori in fretta
mormorando preghiere, e tutte han volto
il cammino alla casa benedetta
ove del monaster le antiche suore
riposan nella pace del Signore.


III

Ma Ildegonda che stanca del gran pianto
tante notti versato alfin dormìa.
Da un dolce sogno lusingata intanto
credea morirsi rassegnata e pia,
di caritate accesa, il nome santo
di Gesù ripetendo e di Maria,
col ministro di pace accanto al letto,
e il Crocifisso e il cereo benedetto.


IV

Quando del mesto bronzo il suon la scosse,
e non ben desta ancor, né ben dormente
s'avvisò, che quel suono il segno fosse
che l'agonia di lei nunzi alla gente;
al qual pensiero tutta si commosse
di gioia, e si segnò devotamente,
e l'angel tutelar chiamando e i santi,
disse la prece degli agonizzanti.


V

Quindi, dal sonno affatto rinvenendo,
subitamente i languid'occhi aperse,
e nulla a più d'intorno a sé veggendo
di quanto in sogno dianzi le s'offerse,
riconobbe l'error; perchè piangendo
le lusinghiere sue speranze perse,
il cor sentìa spezzarsi per l'amara
idea dell'avvenir che si prepara.


VI

Ed, "Oh" disse "Perchè non sono io morta
veracemente, come n'ebbi speme,
anzi che siami dalle labbra estorta
la promessa che il cor ricusa e teme?
Ahi! Nulla più lusinga mi conforta!
Il paterno giudicio* ecco mi preme;
Oh Rizzardo! Rizzardo! Ahi! che al tuo nome
levarmisi d'orror sento le chiome."

* "Maledizione"



VII

Innocente finor fu l'amor mio;
io ti credetti a me dal Ciel donato;
ma poichè fatto s'è ribelle a Dio
questo innocente amor sarà peccato;
ah! forse è scritto che morir degg'io
col rimorso nel cor d'averti amato
e ferma pur d'amarti eternamente
reproba, disperata, impenitente.


VIII

Questo, sì questo è il fine che m'aspetta.
Sciagurata! Per me non v'è salute
sento l'anima mia ch'essere eletta
se dannato tu sei, par che rifiute;
piomberò dal Signore maledetta
nell'Inferno fra l'anime perdute;
se eternamente son teco abbracciata,
non mi spaventa l'esser dannata.


IX

Oimè! Che dissi? Oh qual delirio! Oh quale
bestemmia orrenda m'è dai labbri uscita!
Deh! sostieni, o Signor, questa mia frale*
ragion nel colmo del dolor smarrita,
e tu, mia dolce madre, che immortale
vivi nel gaudio dell'eterna vita,
se d'una figlia ancor ti giunge il pianto,
deh, mi soccorri, che m'amasti tanto.

* "Fragile"


X

Dal sepolcro ove han stanza l'ossa ignude
manda una voce d'ira e di minaccia,
spezza la fredda pietra che ti chiude,
e spaventosamente ergi la faccia:
salvami dal furor di queste crude,
cingimi delle tue materne braccia;
sotto il funebre tuo lenzuol ripara
l'unica figlia che ti fu sì sacra.


XI

Mentre di tali fantasie pascea
l'infelice fanciulla il suo dolore,
della campana la chiamata avea
già congregate insiem tutte le suore,
e già il diserto monaster tacea;
se non che di lontan viene il rumore
di lunga cantilena appena intesa
che suona fra le volte della chiesa.


XII

La mesta allor del suo tardare s'accorse,
e giù balzando dal pudico letto,
ratta ad accender la lucerna corse
in un semplice candido farsetto;
quindi le vesti ruvide add'apporse
s'affretta, e i lini ad acconciar sul petto;
alla cintura la corona assesta
e il salterio* de' veli in su la testa.

* "Velo"


XIII

E frettolosa giù per l'erte scale
corre soletta, che è ancor notte oscura;
e come quella che nel buio, male
i lochi per cui passa raffigura
vien seguitando il canto funerale
alterno in malinconica misura;
e riesce per anditi ritorti
nell'oratorio consacrato ai morti.


XIV

Era la vasta sotterranea stanza
da una lampada in mezzo rischiarata;
tutta d'ossa e di teschi in ordinanza
la parete lunghissima è celata:
solo nel fondo poco spazio avanza,
ov'è la mensa mistica innalzata;
biancheggia il suol di sepolcrali sassi,
e rispondon le tombe sotto ai passi.


XV

In corte file spesse ed ordinate
a destra si vedevano ed a manca
le monache per terra inginocchiate,
curvato il volto sulla nuda panca;
ma con le braccia al petto incrocicchiate,
macera il volto dall'etade, e bianca,
sola nel mezzo, in alto seggio nero,
l'austera madre sta del monastero.



***


Ora riporto una strofa in dialetto, perchè Tommaso Grossi era poeta dialettale. Provo a tradurla io (perchè mio padre l'ha trascritta, ma senza tradurla!). Più che altro la riporto per dare un'idea del dialetto lombardo e della sua grafia.


"In morte di Carlo Porta"

L'è ona brutta giornada scura scura
el pioevv a la roversa, el tira vent,
e gh'hoo adoss ona tal regneccadura
che no ghe troevi el cunt de fa' nient;
me sent on cert magon, e gh'hoo comé
voeuja de piang, che soo nanch mì el perchè.


"In morte di Carlo Porta"

è una brutta giornata, scura scura,
piove alla rovesca, il vento soffia,
e io ho addosso una tale (suppongo) tristezza,
che non trovo la voglia di fare niente;
sento un magone, e sento il bisogno di piangere,
che non so neanche io il perchè.