Nel Quattrocento la poesia che incanta, pur nel solco della tradizione stilnovistica e petrarchesca, non è solo quella che si ispira ai grandi ideali epico-cavallereschi ("L'Orlando innamorato" del Boiardo) o epico-burleschi ("Il Morgante" di Pulci) ma l'altra che prosegue il filone amoroso. Gli Amores libri del Boiardo, ispirati alla sua passione per Antonia Caprara, e comprendenti canzoni, madrigali, sonetti, furono composti per la corte estense. La loro originalità si riscontra particolarmente nel primo libro dove prevale la gioia, dinanzi a una natura dai colori diversi, "non più velati dalla malinconia". Le Rime di Lorenzo hanno un fascino giovanile, per stile ed educazione letteraria, sui quali incide l'estetica neoplatonica, senza oscurarne la varietà tematica (canzoni a ballo,canti carnascialeschi, lirica religiosa) anzi facendo risaltare quella che in Lorenzo sarebbe rimasta un'attitudine sensuale e burlesca, insieme pagana e intimamente religiosa. E infine, a gloria del secolo, si innalza la lirica del Poliziano, decisa a richiamarsi alla semplicità dei sentimenti, all'ardore delle passioni, all'ascolto di motivi popolareggianti, che gareggiano con quelli dei classici a formare un quadro di esaltante freschezza.
Infine, una citazione anche per gli altri nomi: si va dai modi idilliaci ed elegiaci del Tansillo all'intimo fervore della Gambara, dallo "stile amaro" di Isabella di Morra, alla vena gnomica di Antonio Veneziano, mentre su tutti grandeggia la difficoltosa inquietudine di Michelangelo, il suo abbandono alla "doglia estrema" dentro quel realismo magico e tetro che è proprio della sua natura e della sua lingua cangiante.
Certo, quando si giunge al Tasso, i limiti e le cautele imposti dal dilagare del petrarchismo perdono gran parte del loro significato. Nessun poeta del Cinquecento meglio del Tasso ha segnato il particolare momento in cui il concetto del'arte non si basa più sull'imitazione di uno stile ma sulla propria intensa esperienza letteraria e umana.
Fu il Foscolo, in un saggio critico del 1822, scritto durante il suo soggiorno londinese, a rendersi pienamente conto di questa svolta. E difatti l'eredità patrarchesca del Tasso va commisurata a quella di poeti antichi, come Orazio, Ovidio, Catullo, Anacreonte. In lui, anche fuori dai bellissimi risultati dell'"Aminta" e della "Gerusalemme Liberata", la lirica italiana recupera quel carattere di piena autonomia che era stato del Petrarca nei confronti dei poeti che lo avevano preceduto, soprattutto di Dante.
Filippo Brunelleschi
Ecco che stillan gli occhi tuoi e duoi:
cogline tanto quanto ti bisogna e più crudel che sei,
più ne trarrai.
Buonaccorso da Montemagno Il Giovane
Non mai più bella luce, O più bel Sole,
del viso di costei, nel mondo nacque
né'n valle ombrosa erranti e geli d'acque bagnar
più fresche e candide viole.
Francesco Accolti
"Sonetto dedicato ad Isotta d'Este"
I'vidi in aer
tenebroso e fosco lune cieleste
et onesta de altiera,
sotto candido velo in testa nera,
chiaro più che non dico
e non conosco:
nel cui lieto venir quel ch'era nosco (1)
grave tempo maligno
in luce vera, cambiò vista (2)
simile a la spera ch'adorna il cielo e'l mio paese tosco (3)
(1) malvagio
(2) aspetto
(3) velenoso
Leonardo Giustinian
Io mi viveva senza nullo (1) amore,
non era donna a chi volesse bene.
Denanti a me paristi (2), o nobel fiore,
per dar a la vita amare pene.
E sì presto tu m'intrasti (3) nel core,
come saetta che da l'arco vene.
E come intrasti, io presto serrai (4);
perché null'altra donna c'entri mai.
(1) nessuno
(2) dinnanzi a me apparisti
(3) entrasti
(4) lo chiusi
Non piangerò giamai quel che t'ho fato,
né 'l dolce e longo (1) ben che t'ho voluto;
ma ben me dole (2) ch'io te sono stato
fidel amante, e non me hai cognosciuto.
E per lo grande amor che t'ho portato
merito alcun non aggio (3) ricevuto:
ma sempre arai (4) piacer di poter dire:
"Ho fatto sto meschin per me languire"
(1) lungo
(2) mi duole
(3) non ho
(4) avrai
Pietro Andrea dei Bassi e la sua Danza Macabra:
Ressurga (1) da la tumba avara et lorda,
la putrida toa salma, o donna cruda,(2) or che di spirto nuda e cieca e muta e sorda ai vermi dai pastura (3).
E da la prima altura da fiera morte scossa fai tuo lecto una fossa.
Nocte continua nocte te devora et inghiocte e la puzza te smembra le sì pastose (4) membra e te stai sicta sicta (5) per despecto, come animal immondo al laccio strecto (6)".
Amor cos'è? Un tormento.
Amor cos'è? Un dolore.
E tu gonfia e superba
ch'eri sol fiore, et erba, che languon nati appena
e ti credevi piena de balsamo immortale.
Tu saresti ora in alto sopra il stellato smalto,
e di là nella fossa,
vedresti le tue ossa e candide e odorose como i gigli e le rose.
E nel dì poi dell'angelica tromba (7)
volentiere verria l'alma a la toa tomba.
Canzon vanne là dentro in quel'orrido centro,
fuggi poi presto e dille,
che non spera pietà chi especta a pentirsi da sera.
(8)
(1) risorga
(2) crudele
(3) ora che il tuo spirito senza più alcuna falsità, e cieca, muta e sorda, sei un cadavere che fa da cibo ai vermi
(4) morbide
(5) zitta
(6) intrappolato
(7) Il Giorno del Giudizio
(8) dille di non aspettarsi clemenza, perché è morta senza pentimento, o pentendosi un minuto prima di morire, dopo una vita di peccati
Giovanni (o Gioviano) Pontano
Nota di Lunaria: è un poeta che usava il latino. Riporto la traduzione in italiano.
"Turtures alloquitur sciscitans eas de amoris natura"
Quae ramo geminae sedetis una
atque una canitis, vagae volucres,
una et gutture luditis canoro,
cum vobis amor unus, una cura,
unum sit studium ed fidele amoris
(nostri nam variant subinde amores),
vos, blandae volucres, amoris instar,
exemplum fidei iugalis unum.
Quae vis, obsecro, dicite, est amoris
tam constans male dissidensque secum?
Nam, si pascitur e calore et igni,
cur, o cur miseri subinde amantes
frigescunt simul et tremunt, geluque
toto pectore sanguis obrigescit?
Sin est frigida vis geluque ab ipsoo
horrescit simul omnibus medullis,
cur, o cur miseri subinde amantes
uruntur tacito calore et igni,
toto et pectore sanguis ustulatur?
Quaenam haec tam varia subinde vis, ut
alternis calor imperet geluque?
Vos o dicite, blandulae volucres,
exemplum fidei atque amoris unum.
"Si rivolge alle tortore e chiede loro cosa sia l'amore"
Voi che in coppia sullo stesso ramo
sedete e insieme cantate, o tortore vaganti,
uguale è sempre il gorgheggio della vostra gola canora
perché sempre un uguale amore nutrite, un uguale pensiero, lo stesso fedele desiderio d'affetto (variano invece uno dopo l'altro, i nostri affetti),
Voi, teneri alati, modello d'amore, esempio unico di fedeltà coniugale, ditemi, vi prego: cos'è l'amore, una forza così poco costante e sempre in dissidio?
Se un fuoco caldo lo nutre, perché, ditemi, perché a volte i miseri amanti gelano e tremano, e il sangue loro si agghiaccia per tutto il corpo?
Se invece non è un impeto freddo, e rifugge con tutte le forze dal gelo, perché, ditemi, perché a volte i miseri amanti ardono in un subdolo calore di fuoco, il sangue si consuma bruciando in tutto il corpo? Quale è mai questa forza che sempre mutando regna, ora calda, ora fredda, or sull'uno or sull'altro? Ditemelo voi, tenere tortore, esempio unico di amore fedele.
Pietro Jacopo de Jennaro
"Un candido armellino"
Un candido armellino (1) in un bel campo,
più ch'altro in terra d'erbe e fiori adorno,
m'apparve un giorno in sul pogiar (2) d'un monte.
Era l'andare suo sì tardo e grave,
che per vaghezza sempre dietro a passo
l'andai, sì che poi giunsi ad un gran fiume.
[...]
Ai, quanto onesta, bianca, sagia e grave
dopo si mosse con suave passo,
divenuta una donna al nostro campo,
anzi un chiar sole, che dal sagro (3) monte
risplende al mondo sol per farlo adorno
e farlo di virtute un largo fiume.
(1) ermellino
(2) sulle pendici
(3) sacro
Matteo Maria Boiardo
Dall'Orlando Innamorato, libro II canto I
Nel grazioso tempo onde natura
fu più lucente la stella d'amore, (1)
quando la terra copre di verdura (2)
e li arboscelli adorna di bel fiore,
giovani e dame et ogni creatura
fanno allegrezza con zoioso (3) core;
ma poi che 'l verno viene e il tempo passa,
fugge il diletto e quel piacere si lassa. (4)
Così nel tempo che virtù fioria (5)
ne li antiqui segnori e cavallieri,
con noi stava allegrezza e cortesia,
e noi fuggirno per strani sentieri,
sì che un gran tempo smarirno la via,
né del più ritornar ferno pensieri (6);
ora è il mal vento e quel verno compito, (7)
e torna il mondo di virtù fiorito.
(1) Venere
(2) verde
(3) gioioso
(4) viene trascurato
(5) allude al tempo della cavalleria
(6) né più pensarono a ritornare
(7) terminato, compiuto
Dall'Orlando Innamorato, libro II, canto VII
Quando la terra più verde è fiorita,
e più sereno il cielo e grazioso, (1)
alor cantando il rosignol se aita (2)
la notte e il giorno a l'arboscello ombroso;
così lieta stagione ora me invita
a seguitare il canto dilettoso (3)
e racontare il pregio e 'l grand'onore
che donan l'arme gionte (4) con amore.
Dame legiadre e cavallier pregiati,
che onorati la corte e gentilezza,
tirative davanti (5) et ascoltati
delli antiqui baron l'alta prodezza,
che seran sempre in terra nominati:
Tristano e Isotta dalla bionda trezza,
Genevra e Lancilotto (6) del re Bando;
ma sopra tutti il franco conte Orlando.
(1) pieno di leggiadria
(2) conforta
(3) che dà diletto
(4) congiunte
(5) fatevi innanzi
(6) è sottointeso "figlio"
Dall'Orlando Innamorato, libro II, canto XIX
Già me trovai di maggio una matina
intro un bel prato adorno d'ogni fiore,
sopra ad un colle, a lato della marina
che tutta tremolava de splendore;
e tra le rose da una verde spina
una donzella cantava de amore,
movendo sì soave la sua bocca
che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca.
[...]
Matteo Franco
Che meraviglia è che l'avara terra
poco addorni di frutte el vòto seno,
vivendo questo mostro tanto obsceno
che col dente arabbiato ogni uomo afferra?
E fame e peste nel suo petto serra,
calcato, pinzo, e colmo di veleno (1)
[...]
Costui cadde nel grembo di Megera
dalla materna vulva, e di serpenti
pasciuta fu suo bocca orrenda e fera.
(1) Morso da qualche bestia velenosa
Lorenzo de' Medici, detto Il Magnifico
Amor, che hai visto ciascun mio pensiero
e conosciuto il mio fedel servire,
fammi contento, o tu mi fa' morire!
Stare in vita sì aspra e in tal dolore,
confortar l'alma di sospiri e pianti,
certo, signor, sare' morir men rio. (1)
Se tu hai l'arco e la faretra, Amore,
perché il ghiacciato cor non rompi e schianti?
Non dee donna mortale obstare (2) a dio!
Riguarda all'onor tuo e mio disio:
pon' fine ormai al mio lungo martìre,
perch'è vicin già l'ultimo sospire.
(1) meno colpevole
(2) contrariare dio
Belle, fresche e purpuree viole,
che quella candidissima man colse,
qual piaggia (1) o qual puro aer produr volse
tanti più vaghi fior' che far non suole (2) ?
Qual rugiada, qual terra o ver qual sole
tante vaghe bellezze in voi raccolse?
Onde il suave odor natura tolse,
o il ciel, che a tanto ben degnar ne vuole?
Care mie violette, quella mano
che vi elesse intra l'altre, ove eri, in sorte
vi ha di tante excellenzie (3), e pregio ornate!
Quella che il cor mi tolse, e di villano
lo fe' gentile, a cui siate consorte:
quella adunque, e non altri, ringraziate!
(1) territorio
(2) che normalmente non produce
(3) meriti
Niccolò da Correggio
Tacito e solo in questa amena valle,
ove il mio exilio già mi diè Cupido,
stommi (1), e del mondo e i suoi inganni mi rido,
ch'io me l'ho posto già drieto a le spalle.
Non volo al lume più qual le farfalle (2)
ché di luce mortal più non mi fido,
ma il giorno errando vo, la sera al nido
torno, come gli armenti a le sue stalle.
[...]
(1) rimango
(2) che hanno l'abitudine, attirate dalle lampade, di bruciarsi le ali girandovi intorno
Angelo Ambrogini, detto il Poliziano
"Il giardino di Venere"
Con tal milizia (1) e suoi figli accompagna
Venere bella, madre degli Amori (2),
Zefiro il prato di rugiada bagna,
spargendolo di mille vaghi odori;
ovunque vola, veste la campagna
di rose, di gigli, violette e fiori;
l'erba di sue bellezze ha maraviglia (3),
bianca, cilestra, pallida e vermiglia.
(1) Le personificazioni di cui ha parlato precedentementee, descrivendo l'isola di Cipro.
(2) Gli Amori sono i fratelli di Cupido.
"I' mi trovai, fanciulle..."
I' mi trovai fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d'intorno violette e gigli
fra l'erba verde, e vaghi fior novelli
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond'io porsi la man a cor (1) di quelli,
per adornar e' mie' (2) biondi capelli
e cinger di grillanda (3) el vago crino (4)
[...]
Quando la rosa ogni suo foglia spande,
quando è più bella, quando è più gradita;
allora è buona a metterla in grillande,
prima che sua bellezza sia fuggita:
sicché, fanciulle, mentre è più fiorita,
cogliàn la bella rosa del giardino.
I' mi trovai, fanciulle, un bel mattino
di mezzo maggio in un verde giardino.
(1) accoglierne
(2) i miei
(3) ghirlande
(4) cingere di ghirlande i bei capelli
"Canzona"
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
La bella ninfa è sorda al mio lamento,
e 'l suon di nostra fistula (1) non cura;
di ciò si lagna il mio cornuto (2) armento
né vuol bagnare el grifo (3) in acqua pura;
né vuol toccar la tenera verdura,
tanto del suo pastor gl'incresce e dole.
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
[...]
Portate, venti, questi dolci versi
dentro all'orecchio della ninfa mia:
dite quant'io per lei lacrime versi,
e lei pregate che crudel non sia;
dite che la mia vita fugge via
e si consuma come brina al sole.
Udite, selve, mie dolce parole,
poi che la ninfa mia udir non vole.
(1) zampogna pastorale
(2) bovino
(3) muso
Serafino Aquilano
Risguarda (1), donna, come el tempo vola
ed ogni cosa corre a la sua fine:
in breve se fa scura ogni viola
cascan le rose e restan poi le spine;
così tua beltà ch'al mondo è sola
non creder come oro al foco affine:
dunque cognosci el tuo tempo felice,
né sperar renovar come fenice (2)
(1) rifletti
(2) la fenice, difatti, rinasce dalle sue ceneri
La notte riede tacita in un ponto (1)
e 'l mondo tutto e la mia mente imbruna;
e ciascun animale riposo è gionto,
né in ciel né in mar move tempesta alcuna;
e per dar loco a chi è d'amor componto (2)
da noi se asconde la fulgente luna.
Me ben che 'l ciel la terra el mar s'acquiete
mio tempestoso cor non ha quiete.
(1) la notte ritorna silenziosa in un istante
(2) per consolare chi è travagliato dall'amore
Jacopo Sannazaro
Sovra una verde riva
di chiare e lucide onde
in un bel bosco di fioretti adorno,
vidi di bianca oliva
ornato e d'altre fronde
un pastor, che 'n su l'alba appiè d'un orno
cantava il terzo giorno
del mese inanzi aprile:
a cui li vaghi ucelli
di sopra gli arboscelli
con voce rispondean dolce e gentile:
et ei rivolto al sole,
dicea queste parole:
- Apri l'uscio per tempo,
leggiadro almo Pastore,
e fa vermiglio il ciel col chiaro raggio,
mostrane inanzi tempo
con natural colore
un bel fiorito e dilettoso maggio,
tien più alto il viaggio,
acciò che tua sorella (1)
più che l'usato dorma,
e poi per la sua orma
se ne vegna pian pian ciascuna stella: (2)
ché, se ben ti ramenti,
guardasti i bianchi armenti.
Valli vicine, e rupi,
cipressi, almi et abeti,
porgete orecchie a le mie basse rime;
[...]
Mentre per questi monti
andran le fiere errando,
e gli alti pini aràn (3) pungenti foglie;
mentre li vivi fonti
correran murmurando
ne l'alto mar che con amor li accoglie:
mentre fra speme e doglie
vivran gli amanti in terra [...]
(1) riferito alla Luna
(2) acciò che le stelle via via la seguano
(3) avranno
Come notturno ucel nemico al sole (1)
lasso, vo io per luoghi oscuri e foschi,
mentre scorgo il dì chiaro in su la terra;
poi quando al mondo sopravien la sera,
non com'altri animai (2) m'acqueta il sonno,
ma allor mi desto a pianger per le piagge.
Se mai quest'occhi tra boschetti o piagge,
ove no splenda con suoi raggi il sole,
stanchi di lacrimar mi chiude il sonno,
vision crude et error (3) vani e foschi
m'attristan sì, ch'io già pavento a sera,
per tema di dormir, gittarmi a terra.
(1) della luce solare
(2) esseri viventi
(3) fantasie, immaginazioni
è questo il legno (1) che del sacro sangue resperso
(2) fu.
Nel benedetto giorno che fuggì vinto, con paura e scorno,
quel falso, antico, alpestro e rigido angue (3).
Qui il mio Signor lasciò la spoglia esangue tornando al suo celeste alto soggiorno, e scolorissi il santo viso adorno, come purpureo fior, che inciso, langue.
(1) la Croce
(2) cosparso
(3) il Serpente, ovvero il Diavolo
Ecco che un'altravolta, o piagge apriche, (1)
udrete il pianto e i gravi miei lamenti;
udrete, selve, i dolorosi accenti
e 'l tristo suon de le querele (2) antiche.
Udrai tu, mar, le usate mie fatiche,
e i pesci al mio lagnar staranno intenti;
staran pietose a' miei sospiri ardenti
quest'aure, che mi fur gran tempo amiche.
E se di ver amor qualche scintilla
vive fra questi sassi, avran mercede (3)
del cor, che desiando arde e sfavilla.
Ma, lasso, a me che val, se già nol crede,
quella ch'i' sol vorrei, vèr me (4) tranquilla
né le lacrime mie m'acquistan fede? (5)
(1) spiagge soleggiate
(2) lamentele
(3) pietà
(4) verso di me
(5) fiducia
************
La poesia del '500 si divide in:
- Petrarchismo ( il Bembo e i suoi seguaci)
- Il Comico-Burlesco (Berni e seguaci)
- IL Latino Maccheronico di Folengo (e specularmente la scuola dei Pedanti)
- Le Pasquinate di Roma (poesie di protesta civile)
- I Canti Carnascialeschi
- Volgari-Erotiche (l'Aretino e il grande rivale Niccolò Franco - tra l'altro condannato e impiccato dall'Inquisizione nel 1570 per le sue poesie erotiche e aggressive anche contro il papato - )
Riporto qualche verso che ho apprezzato:
Pietro Bembo
Piansi e cantai lo strazio e l'aspra guerra ch'i'ebbi a sostener molti e molti anni e la cagion de così lunghi affanni,
cose prima non mai vedute in terra.
Dive, per cui s'apre Elicona e Serra, (1)
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil che nacque de' miei danni, viver,
quand'io sarò spento e sotterra.
[...]
Gli occhi bagnati porto e'l viso chino e 'l cor in doglia e l'alma fuor di spene, né d'aver cerco men fero (2) destino.
E quando 'l verno (3) le campagne imbianca, e quando il maggior dì fende 'l terreno, in ogni rischio, in ogni dubbio via fidata compagnia, tenesti il viver mio lieto e sereno che mesto e tenebroso fora stato, e sarà, fra te, senza te mai sempre.
O disaventurosa acerba sorte!
O dispietata intempestiva morte!
O mie cangiate e dolorose tempre!
Tregua non voglio aver col mio dolore
infin ch'io sia dal giorno ultimo giunto.
[...]
Chi mi dà il grembo pien di rose e mirto
si ch'io sparga la tomba?
(1) sono monti e luoghi mitologici
(2) feroce
(3) inverno
Crin d'oro crespo, e d'ambra tersa e pura,
ch'a l'aura su la neve (1) ondeggi e vole (2)
occhi soavi, e più chiari che 'l sole,
da far giorno seren la notte oscura;
riso che acqueta ogni aspra pena e dura;
rubini e perle (3), ond'escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vuole [...]
(1) sulle candide spalle
(2) voli
(3) labbra e denti
Gabriel Fiamma
Nato a Venezia intorno al 1530, fu celebre e ammirato predicatore e girò a lungo per l'Italia. Fu denunciato all'Inquisizione, ma se la cavò. Nel 1584 fu nominato vescovo. Morì l'anno seguente.
Il Poeta si rivolge all'Eco; parla, dà sfogo al dolore,
e una voce d'eco gli risponde.
Mentre piango i miei falli e l'aria intorno
empio d'alti sospir, d'aspri lamenti,
odo chi meco parla e 'n tristi accenti
accompagna il mio duol la notte e 'l giorno.
Fammi, dico, Signor, di nuovo adorno;
et orno portan a l'orecchie e i venti.
Saran, ahi lasso, eterni i miei tormenti;
menti, rapporta l'aria al mio soggiorno.
Che dunque i miei dolor pur fine avranno?
Hanno, risponde. Io sarò lieto ancora?
Ora odo risonar da' cavi sassi.
Così fanno altrui lieto il duol, l'affanno?
Fanno, dice. E col pianto, il ciel talora
amico fassi? (1) E mi risponde, fassi!
(1) e il pianto, permette di ricevere la misericordia dal Cielo?
Le voglie e l'opre mie gelate e spente
pregio non ebber d'immortale onore;
ché priva l'alma in sé del tuo favore
d'acquistar tanto ben non è possente.
Alsi (1), sudai, temei, lieto e dolente,
cercai fuggendo in un odio e l'amore,
volli e pregiai quel che credei peggiore,
e contrario a me stesso fui sovente.
Non fu colle o compagna o riva o fiume
che non cercasse le mie voglie accorte (2)
per trovar quell'ond'io m'arda e consume;
e fatto più nel mal ardito e forte,
qual chi, nulla, temendo, assai presume,
sprezzai quanto di ben m'è dato in sorte.
(1) Gelai
(2) Attente nel cercare quello che torna a danno dell'anima.
Cura (1), che d'oro ti nutrisci e vivi,
e fra mille tormenti e mille danni,
mentre per arricchir sudi ed affanni,
de le ricchezze tue te stessa privi;
come fia mai (2) che nel mio petto arrivi
col tuo velen ch'in noi cresce con gli anni, (3)
se contra i fieri tuoi segretii inganni
le genti armai di pensier gravi e schivi?
Dunque di povertà le pure e sante
leggi di calpestar, profana, ardisci,
e movi entro al suo bel regno le piante? (4)
Vàttene, fera, ove i tuoi lacci ordisci
fra spine e spene: ivi nel volgo errante (5)
il tesor troverai per cui languisci.
(1) Affanno. Il poeta qui si riferisce all'avarizia
(2) Come può mai accadere
(3) Con la vecchiaia
(4) Muovi i piedi nel regno della povertà cioè nella vita del poeta che in quanto religioso ha fatto voto di povertà.
(5) Tra la moltitudine mondana
Questo mar, questi scogli e queste arene (1)
hanno gran somiglianza col mio male:
ch'un numero d'affanni e pene eguale (2)
a quel di questa sabbia il cor sostiene;
e tal durezza di pensieri tiene
la mente in sé, che non l'ha un scoglio tale;
e, come fosse un mar, sempre m'assale
or vento di paura, ora di spene.
Come l'arena sterile è l'ingegno;
arida l'alma come un duro scoglio;
torbido il cor come turbato mare.
Sempre di lagrimoso umor son pregno,
né mi move del mondo ire od orgoglio (3)
e le dolcezze mie son tutte amare.
(1) Sonetto composto quando l'autore era di passaggio alle isole Tremiti
(2) il numero di affanni è uguale al numero dei granelli di sabbia.
(3) il ritmo della vita terrena
Quest'ora breve e d'ogni gioia cassa, (1)
ch'ha nome vita, ed è polve e ombra e vento,
lieve fugace e vil, ch'in un momento
vola, sparisce, si disperde e passa;
rapisce e ritien l'alma afflitta e lassa,
e di vaghezza (2) tal l'empie, cio sento
che 'l perfetto del ciel vero contento, (3)
gonfia misera e cieca, a dietro lassa. (4)
Ben la chiama e la desta alto consiglio
del suo Fattor (5), perché volga il pensiero
a la sua vera stanza alma e natia: (6)
ma sorda a le sue voci, il duro esiglio (7)
sol ama; e cerca, o desir vano e fiero!,
che de l'eterno ben chiuda la via. (8)
(1) priva
(2) desiderio
(3) gioia
(4) lascia da parte
(5) Dio
(6) al Cielo, suo luogo natio e suo nutrimento
(7) la vita terrena
(8) di perdere la strada dell'eternità
Chiome, di mille cor reti e catene,(1)
e del mio vaneggiar travaglio eterno,
sciolte, sparse, confuse, (2) il duol interno
mostraste fuori, e l'aspre alte mie pene.
Luci (3), sol per l'altrui danno serene,
onde già mille palme (4) ebbe l'inferno,
de l'alma il tempestoso orrido verno
scoprite altrui, di pianto amaro piene.
Membra d'ogni gran mal focile ed esca, (5)
mani, a rapir l'altrui salute (6) pronte,
siate presto a cangiar costumi e vita.
E tu, sommo Signor, se l'età fresca (7)
vissi nel fango, or, ch'io cerco il tuo fonte
per lavar l'error mio, porgimi aita. (8)
(1) Ripete il tipico schema del sonetto in lode della bellezza della donna, ma rovesciandolo di segno ed immaginando che a parlare qui sia la maddalena, nel momento in cui si getta ai piedi di cristo lavandoli con la lacrime e asciugandoli con le chiome (Nota di Lunaria: ovviamente scena evangelica che promuove e fomenta un discorso di masochismo femminile da "serva indegna" nei confronti di un coso che è maschio ed è giudicato dio. Ovviamente la schifezza della vicenda evangelica non toglie bellezza a questo sonetto, che scelgo di riportare perché ne apprezzo la resa linguistica, e non certamente perché ne approvo il contenuto)
(2) di fronte a cristo, le chiome, prima tanto accurate, sono sciolte e disordinate.
(3) occhi
(4) vittorie
(5) stimolo, allettamento
(6) salvezza
(7) giovinezza
(8) aiuto
Celio Magno
Ecco di rose a questa tomba intorno aprir,
quasi in su' onor, pomposa schiera ch'l seno
aprendo sembran dire:
<< Tal era di colei che qui giace il volto adorno >>
E tal ne sentian l'altre l'invidia e scorno
qual di noi gli altri fiori a primavera.
Me stesso io piango e de la propria morte
apparecchio l'esequie,
anzi ch'io pera (1)
ch'ognor in vista fera (2)
m'apparir davanti e'l cor di tema agghiaccia:
chiaro indicio che già
l'ultima sera s'appressi e'l finne di mie giornate apporte.
(1) muoia
(2) in aspetto feroce
Ora riporto qui alcuni sonetti che anticipano certe tematiche romantiche: il vagheggiare luoghi desolati e selvaggi, la natura sublime, le rovine, la solitudine del poeta.
Matteo Bandello
Aspere rupi, incolti sassi e aperte dal terremoto e profondate grotte, d'orror di fredda tema e d'atra notte piene,
e caverne inospiti e deserte; strade mai sempre periglio ed erte,
d'altre roine attraversate e rotte, acque schiumanti con furor condotte, per valli ognor di nuvole coperte, di famelici lupi e crude e fiere d'orsi, di serpi e di null'altre belve, covi, spelonche, buconi, antri e tane, e voi sì spaventose e oscure selve, com'è che mi facciate qui vedere chi m'arde
e fa le mie speranza vane?
Alpi nevose, che le corna al cielo e quindi oltre misura alzate, e nell'algente verno e alda estate orride séte di perpetuo gelo.
Giovanni Guidiccioni
Qui vedrai campi solitari nudi, e sterpi e spine invece d'erbe e fiori e nel più verde april canuto verno.
Qui i vomeri e le felci in via più crudi ferri coverse,
e pien d'ombre e d'orrori questo di vivi doloroso inferno
mirando aride stoppie e tronchi e sterpi le piagge ove l'altrieri splendeano i fiori e ondeggiavan l'erbe; e l'odorate siepi, nude spine, che le strade spargean dianzi di rose; andan sotterra le sdegnose serpi.
Giovan Battista Strozzi
Ombra io seguo che piage e monti copre per l'oscurissima foresta
del mondo a fin discuopre aguati con sua face atra funesta...
Quante e che spaventose ombre e larve atre, e scuri mi spaventan fantasmi: e tristi auguri e voci dolorose?
Né più (miseri) or l'una or l'altro,
ma solo Notte, pur sempre, e stigia (1) Notte?"
(1) infernale
O sera cupissima infelice, che svelta da radice tutta la mia purpurea primavera, di sì fosc'ombra nera non pur l'anima imbruni ma tanti in sen m'adui, in sen mi chiudi abissi e inferni dispietati e crudi.
Ludovico Ariosto
Occhi miei belli, mentre ch'i vi miro,
per dolcezza inefabil ch'io ne sento,
vola, come falcon c'ha seco il vento,
la memoria da me d'ogni martiro;
e tosto che da voi le luci giro (1)
amaricato (2) resto in tal tormento
che, s'ebbi mai piacer, non lo ramento:
ne va (3) il ricordo col primier sospiro.
Non sarei di vedervi già sì vago (4)
s'io sentissi giovar, come la vista,
l'aver di voi nel cor sempre l'imago.
Invidia è (5) ben se 'l guardar mio vi attrista;
e tanto più che quello ond'io m'appago
nulla a voi perde (6), ed a me tanto acquista.
(1) Non appena io cesso di guardarvi
(2) amareggiato
(3) fugge
(4) cos' desideroso
(5) è segno di invidia
(6) nulla a voi toglie
Chiuso era il sol da un tenebroso velo
che si stendea fin all'estrema sponde
de l'orizonte e murmurar le fronde
e tuoni andar s'udian scorrendo il cielo;
di pioggia in dubbio o tempestoso gelo, (1)
stav'io per ire oltre le torbid'onde
del fiume altier che 'l gran sepolcro asconde
del figlio audace del signor di Delo; (2)
quando apparir su l'altra ripa il lume
de' bei vostri occhi vidi, e udii parole
che Leandro potean farmi quel giorno. (3)
E tutto a un tempo i nuvoli d'intorno
si dileguaro e si scoperse il sole;
tacquero i venti e tranquillossi il fiume.
(1) La grandine
(2) Fetonte, figlio del Sole, il quale fu fulminato da Giove
(3) Leandro, mentre nuotava per l'Ellesponto, recandosi dalla donna amata
Michelangelo Buonarroti
Per qual mordace lima (1)
discresce e manca ognor tua stanca spoglia (1),
anima inferma? or quando fie (3) ti scioglia
da quella il tempo e torni, ov'eri, in cielo,
candida e lieta prima,
deposto il periglioso mortal velo (4)?
Ch'ancor ch'io cangi il pelo (5)
per gli ultim'anni e corti,
cangiar non posso 'l vecchio mio antico uso (6),
che, con più giorni, più mi sforza e preme.
Amor, a te nol celo,
ch'i porto invidia a' morti;
sbigottito e confuso,
sì di sé meco l'alma trema e teme.
Signor, nell'ore streme
stendi ver me le tue pietose braccia,
tomm'a me stesso (7) e fammi un che ti piaccia! (8)
(1) A causa di quel tormento aspro e crudele
(2) Il tuo stanco corpo
(3) Sarà che
(4) Il corpo soggetto alle passioni
(5) Il mio comportamento
(6) La mia attitudine al peccato
(7) Toglimi, strappami a me stesso
(8) Ti piaccia, perché senza peccato
O notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn'opra sempr'al fin assalta, (1)
ben vede e ben intende chi t'esalta,
e chi t'onor'ha l'intelletto intero. (2)
Tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero;
ché l'umid'ombra ogni quiet'appalta (3),
e dall'infima parte alla più alta (4)
in sogno spesso porti, ov'ire spero (5).
O Ombra (6) del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l'alma, al cor nemica,
ultimo dellia afflitti e buon rimedio;
tu rendi sana nostra carn'inferma,
rasciughi i pianti e posi (7) ogni fatica,
e furi a chi ben vive (8) ogn'ira e tedio.
(1) Tende sempre al suo scopo
(2) Sano
(3) L'ombra e la quiete prendono in appalto, cioè portano via con sé ogni stanco pensiero
(4) Dalla terra al cielo
(5) Dove spero di andare (in Paradiso)
(6) Immagine
(7) Fai cessare
(8) Cancelli negli anni bui
Baldassarre Castiglione
"Cantai mentre nel cor.."
[...] Così un fosco pensier l'anima ha' n governo, (1)
che col freddo timo dì e notte a canto
di far minaccia il suo dolor eterno.
Però s'io provo aver l'antico canto,
tinta la voce del veneno (2) interno
esce in rotti sospiri (3) e duro pianto.
(1) in suo potere
(2) veleno
(3) singhiozzi
Veronica Gambara
Poi che, per mia ventura (1), a veder torno
voi, dolci colli, e voi chiare e fresch'acque,
e tu che tanto a la natura piacque
farti, sito gentil, vago ed adorno (2);
ben posso dire avventuroso il giorno,
e lodar sempre quel desio che nacque
in me di rivedervi, che pria giacque
morto nel cor di dolor cinto intorno (3).
Vi veggi' or dunque, e tal dolcezza sento
che quante mai da la fortuna offese (4),
ricevute ho finor, pongo in oblio.
Così sempre vi sia largo e cortese,
lochi beati, il ciel, come in me spento
è, se non di voi soli, ogni desio (5).
(1) fortuna
(2) ricco di piante
(3) fasciato di dolore
(4) colpi dolorosi
(5) ogni desiderio, fuorché quello di stare a voi vicina
Ombroso colle, amene e verdi piante,
liete piaggie, profonde e grate valli,
correnti, freschi e lucidi cristalli
conforto spesso alle mie pene tante:
segrete selve reverende e sante,
folti boschetti e solitari calli,
suavi fiori persi,
bianchi e gialli oppressi da celesti e sacre piante.
A voi, piangendo già, i miei duri stenti narrai più volte.
Vittoria Colonna
Amaro lagrimar, non dolce canto,
foschi sospiri e non voce serena,
di stil no, ma di duol mi danno il vanto.
Quando 'l gran lume appar nell'Oriente
che'l negro manto della notte sgombra
e dalla terra il gelo e la fredd'ombra dissolve
e scaccia col suo raggio ardente: de' primi affanni
ch'avea dolcemente il sonno mitigati
allor m'ingombra.
Quando il turbato mar s'alza, e circonda
con impeto e furor ben fermo scoglio;
se saldo li trova, il procelloso orgoglio (1)
si frange, e cade in se medesma l'onda.
Tal io, s'incontra me (2) vien la profonda
acqua mondana (3) irata, come scoglio,
levo al ciel gli occhi, e tanto più la spoglio
del suo vigor, quanto più forte abbonda.
E se talor il vento del desio
ritenta nuova guerra, io corro al lido,
e d'un laccio d'amor con fede attorto
lego il mio legno (4) a quella, in cui mi fido,
viva pietra Gesù; sì che quand'io
voglio, posso ad ognor (5) ritrarmi in porto.
(1) La violenza dei flutti. Tutto il sonetto è costruito sulla metafora del mare della vita
(2) Se incontro a me
(3) Quella dei piaceri mondani
(4) Metafora per "la mia esistenza"
(5) Ad ogni momento
Francesco Berni
Chiome d'argento fine (1), irte e attorte
senz'arte, intorno ad un bel viso d'oro (2);
fronte crespa, 'u (3) mirando io mi scoloro (4),
dove spunta i suoi strali amore e morte;
occhi di perle vaghi, luci torte (5)
da ogni obbietto disuguale a loro (6);
ciglia di neve (7), e quelle, ond'io m'accoro,
dita, e man dolcemente grosse e corte;
labbra di latte, bocca ampia celeste,
denti d'ebano, rari e pellegrini (8),
inaudita ineffabile armonia;
costumi alteri e gravi; a voi, divini
servi d'amor, palese fo, che queste
son le bellezze della donna mia.
(1) Il sonetto è una parodia di quello del Bembo sulle bellezze della sua donna
(2) Giallo
(3) Dove
(4) Impallidisco
(5) Pupille storte
(6) Da ogni oggetto che non sia in linea con loro
(7) Bianche
(8) Neri, rari e cadenti
Giovanni Della Casa
O sonno, o de la queta, umida, ombrosa
notte placido figlio; o de' mortali
egri (1) conforto, oblio dolce de' mali
sì gravi, ond'è la vita aspra e noiosa (2),
soccorri al core ormai, che langue, e posa
non have, e queste membra stanche e frali (3)
solleva; e me ten vola, o sonno, e l'ali
tue brune sovra me distendi e posa.
Ov'è 'l silenzio, che il dì fugge e 'l lume? (4)
e i lievi sogni, che con non secure
vestigia (5) di seguirti han per costume? (6)
Lasso! che 'nvan te chiamo, e queste oscure
e gelide ombre invan lusingo. O piume (7)
d'asprezza colme! o notti acerbe e dure!
(1) Afflitti
(2) Dolorosa
(3) Deboli
(4) Che fugge il giorno e la luce
(5) A passi incerti
(6) Sogliono
(7) Del cuscino o del materasso: metonimia per "letto"
Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero (1)
e per ornar la scorza anch'io di fore (2),
molto contesi (3); or langue il corpo e 'l core
paventa (4); ond'io riposo e pace chero (5).
Coprami omai vermiglia vesta (6) o nero
manto, poco mi fia gioia o dolore. [...]
(1) Disposto alla lotta
(2) Per conquistare ornamenti, il decoro esteriore
(3) Combattei
(4) Sbigottisce
(5) Cerco
(6) La porpora cardinalizia
Questa vita mortal, che 'n una o 'n due
brevi e notturne ore trapassa, oscura
e fredda, involto avea fin qui la pura
parte di me (1) ne l'atre nubi sue. [...]
E tutto quel che 'n terra o 'n ciel riluce
di tenebre era chiuso, e tu l'apristi (2)
e 'l giorno e 'l sol de la tua man sono opre.
(1) La parte spirituale
(2) Lo rendesti noto
Mentre fra valli paludose
e ime ritembon me larve turbate e mostri,
che tra le gemme, lasso,
e l'auro e gli ostri copron venen
che'l cor mi roda e lime;
O v'ornata di virtù raro s'imprime per sentieri novi,
a nullo ancor dimostri qual chi seco d'onor
contenda e giostri, ten vai tu sciorto
a le spedite cime onde m'assal vergogna e duolo,
qualora membrando vo com' a non degnarete col vuggo caddi,
e converra ch'io mora felice te, che spento hai la tua sete!
Meco non febo, ma dolor dimora cui sola può lavar l'onda di Lete.
Angelo di Costanzo
Desiai morte, e con pietosi accenti
gran tempo la chiamai crudele e parca (1),
perché la vita mia d'affanni carca
non fu presta a tra d'ira e di tormenti.
[...] Godete, amanti, negli avversi amori:
che spesso uno stato (2) assai caro e gentile
nasce da gravi ed inauditi ardori (3).
(1) Avara
(2) Una situazione
(3) Passioni
Ben assomiglia al tuo, Notte, il mio stato,
tu ten vai senza Sol,
mesta ed oscura, io d'ogni intorno il cor fosco
e turbato tengo,
mentre il mio Sole altri mi fura.
Luigi Tansillo
E freddo è il fonte, e chiare e crespe ha l'onde
e molli erbe verdeggian d'ogn'intorno (1),
e 'l platano coi rami e 'l salce, e l'orno
scaccian Febo (2), che il crin talor v'asconde:
e l'aura appena le più lievi fronde
scuote; sì dolce spira al bel soggiorno [...]
(1) Dappertutto, lungo le rive
(2) Il Sole
Strane rupi, aspri monti, alte tremanti
ruine, e sassi al ciel nudi e scoperti (1),
ove a gran pena pòn (2) salir tant'erti
nuvoli in questo fosco aere fumanti;
superbo orror, tacite selve, e tanti
negri antri erbosi in rotte pietre aperti (3);
abbandonati a sterili deserti,
ov'han paura andar le belve erranti;
a guisa d'uom, che per soverchia pena
il cor triste ange (4) fuor di senno uscito,
sen va piangendo, ove il furor lo mena (5),
vo piangendo io tra voi; e se partito (6)
non cangia il ciel, con voce assai più piena
sarò di là tra le meste ombre udito (7)
(1) Senza vegetazione
(2) Possono
(3) Scavati
(4) Angoscia
(5) Lo porta
(6) E se non muta la sua decisione
(7) Defunti
"Che i campi il giorno d'ombra e d'orror cinga..."
Valli nemiche al Sol, superbe rupi che minacciate il ciel, profonde grotte, d'onde non parton mai silenzio e notte,
sepolcri aperti, pozzi orrendi e cupi,
precipitati sassi, alti dirupi,
ossa insepolte,
erbose mura e rotte d'uomini albrgo ed ora a tal condotte
che temon d'ir fra voi serpenti e lupi
erme campagne, abbandonati lidi,
ove mai voce d'uom l'aria non freme,
Ombra son io dannata a pianto eterno,
ch'a piagner vengo la mia morte
fede e spero al suon de' disperati stridi,
se non si piega il ciel, muovere l'Inferno.
Galeazzo di Tarsia
Già corsi l'alpi gelide e canute (1),
mal fida siepe (2) alle tue rive amate:
or sento, Italia mia, l'aure odorate (3),
e l'aer pien di vita e di salute.
Quante m'ha dato Amor, lasso, ferute (4)
membrando (5) la fatl vostra beltade,
chiuse valli, alti poggi ed ombre grate,
da' ciechi figli tuoi (6) mal conosciute!
O felice colui che un breve e colto (7)
terren tra voi possiede, e gode un rivo,
un pomo, un antro e di Fortuna il volto.
Ebbi i riposi e le mie paci a schivo (8)
(o giovenil desio fallace e stolto!):
or vo piangendo, che (9) di lor son privo.
(1) Rese bianche dalla neve
(2) Difesa non troppo sicura
(3) Odorose
(4) Ferite
(5) Nel ricordare
(6) I tuoi abitanti
(7) Piccolo e coltivato
(8) A dispregio
(9) Giacché
Isabella di Morra
Ecco ch'un'altra volta, O valle inferna, (1)
O fiume (2) alpestro, O ruinati sassi,
O spirti ignudi di virtude e cassi (3),
udrete il pianto e la mia doglia eterna.
Ogni monte udirammi, ogni caverna,
ovunqu'io arresti, ovunque io muova i passi;
ché Fortuna, che mai salda non stassi,
cresce (4) ognora il mio male, ognor l'eterna.
Deh, mentre ch'io mi lagno e giorno e notte,
O fere, O sassi, O orride ruine,
O selve incolte, O solitarie grotte,
ulule (5), e voi (6) del mal nostro indovine,
piangete meco a voci alte interrotte
il mio più d'altro miserando fine.
(1) Infernale
(2) Il fiume Sinni
(3) Spogli
(4) Accresce
(5) Uccelli notturni degli Strigidi
(6) Anche voi
... misera! Io siedo nel mio duolo immersa, fra le lagrime mie, fra i miei sorrisi, ed attendo il mattino... Qui poserommi a' miei diletti accanto, lungo, il ruscel della sonante rupe, quando sul colle stenderà la notte le negre penne, quando il vento tace sul'erte cime, andrà 'l mio spirto errando per l'amato aere e dolorosamente piangerò i miei diletti.
Scorrete anni di tenebre, scorrete, ché gioia non mi reca il corso vostro.
S'apra ad ossiam la tomba, or che gli manca l'antica lena: già dal canto i figli riposan tutti.
Mormorar si ascolta sol la mia voce, come roco e lento mugghio di rupe che dall'onde è cinta, quando il vento cessò:
la marina erba colà sussurra, ed il nocchier da lunge gli alberi addita a la vicina terra.
Gaspara Stampa
Via da me le tenebre e la nebbia,
che mi son sempre state agli occhi intorno
sei lune e più (1) che 'n Francia fe' soggiorno
lui (2) che 'l mio cor, come gli piace, trebbia (3).
è ben ragion ch'asserenarmi io debbia,
or che 'l mio sol m'ha rimenato il giorno:
or ch'han pace le guerre, che d'attorno
mi fur, qual vide Trasimeno e Trebbia. (4)
Sia ogni cosa in me di riso piena,
poi che seco una schiera di diletti
a star meco il mio sol almo rimena (5).
Sia la mia vita in mille dolci, eletti
piaceri involta (6), e tutta alma e serena.
e se stessa gioendo ognor (7) diletti.
(1) Più di sei mesi
(2) Il suo amante
(3) Strazia
(4) La guerra fra Annibale e i Romani alla Trebbia e al Trasimeno
(5) Il mio grande sole amoroso riporti con sé
(6) avvolta
(7) sempre
Io son da l'aspettar (1) ormai sì stanca,
sì vinta dal dolore e dal disio,
per la sì poca fede (2) e molto oblio
di chi del suo tornar, lassa, mi manca (3),
che lei (4) che 'l mondo impallidisce e imbianca (5)
con la sua falce e dà l'ultimo fio (6),
chiamo talor per refrigerio mioo,
sì l' dolor nel mio petto si rinfranca (7).
Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
schernendo i miei pensieri fallaci e folli,
come sta sordo (8) anch'egli al suo tornare.
Così col pianto, ond'ho gli occhi miei molli (9),
fo pietose quest'onde e questo mare;
ed ei (10) si vive lieto ne' suoi colli.
(1) A causa dell'attesa
(2) Per le prove di scarsa fedeltà
(3) Mi priva
(4) Colei, cioè la Morte
(5) Fa impallidire di paura
(6) A ciascuno assegna la sua sorte
(7) S'accresce
(8) Restìo
(9) Umidi
(10) è sempre l'uomo amato
Veronica Franco
Perduto de la vita ogni vigore
pallida e lagrimosa ne l'aspetto
mi fei grave soggiorno di dolore;
e di languir lo spirito costretto
de lo sparger gravosi afflitti lai (1),
e del pianger sol trassi alto diletto.
O mie vane speranza, onde la sorte crudel
a pianger più sempre m'invita, ma pur sostienti,
cor sicuro e forte, e con l'ultimo strazio di quell'empio,
vendica mille tue con la sua morte;
poi con quel ferro ancor tronca il tuo scempio.
(1) lamenti
Antonio Veneziano:
nato a Monreale nel 1543, studiò a Palermo e a Roma. Ebbe una vita turbolenta, fu rapito dai pirati e morì in carcere. La sua fama di poeta in dialetto siciliano lo accompagnò per tutta la vita; nel 1859 venne stampata un'edizione delle sue poesie. Il suo metro è l'ottava siciliana a rime alterne (senza la rima baciata finale della normale ottava narrativa)
Mortu è stu cori pr'un cori tirannu
a attortu sutta terra si conduci;
li visitusi l'occhi mei sarrannu,
accumpagnati di sughiuzzi e vuci;
li sensi pri tabbutu sirvirannu
e li suspiri pr'incenzu e per luci;
e tutti chisti repitu auzirannu:
pr'amuri divintau la morti duci!
Questo cuore è morto per un cuore tiranno
e ingiustamente vien posto sottoterra;
gli occhi miei saranno pieni di lacrime,
accompagnate da sighiozzi e grida;
i miei sensi serviranno da bara
ed i sospiri per incenso e luci;
e tutti insieme eleveranno lamentazioni:
per amore la morte divenne dolce!
S'iu di lu focu to sugn'arsu e persu,
come non senti lu to propiu arduri?
Anzi, 'ntornu lu cori e d'ogni versu,
d'eternu ielu ti circundi e muri?
Sta qualitati e st'effettu diversu
su' propiamente celesti faguri:
comu lu suli scalfa l'universu
ed iddu non ha' puntu di caluri.
Se io sono arso e distrutto dal tuo fuoco d'amore,
come non senti il tuo proprio ardore? Anzi, intorno al cuore
e da ogni parte, di gelo eterno ti circondi e muri?
Questa qualità e quest'effetto contrario
sono propriamente celestiali grazie:
come il sole che riscalda l'universo
ed esso stesso non si consuma (?) per il calore.
Chiangiu e lu chiantu miu è cosa strangia
chi, cui la senti, a lagrimari invita;
e l'una e l'autra gota rudi e smangia
lu chiantu, chi cadendu fa via trita.
E spissu in sangu li lagrimi cangia,
tant'è la pena mia, pena infinita;
e comu n'havirò cosa chi chiangia,
chiangirò l'occhi e, a l'ultimu, la vita.
Piango ed il mio pianto è cosa strana
tanto da invitare a piangere chi l'ascolti;
e l'una e l'altra gota corrode e logora
il pianto, che, cadendo, logora la strada.
E spesso in sangue si cambian le lagrime,
tanta è la mia pena, pena infinita;
e quando non avrò cosa piangere,
piangerò gli occhi e, all'ultimo, la vita.
Di propria manu s'opra pinsi Amuri
per farisi adurari iddu per diu.
Macinau la biddizza, li coluri,
la grazia per pinzeddu ci sirviu.
Poichì, cu middi travaghi e suduri,
cussì divina jmagini cumpliu,
ndi fu idolatra, com'era pitturi:
e ci sagrificau lu cori miu.
Di propria mano quest'opera dipinse Amore
per farsi adorare egli stesso come un Dio.
Maciò la bellezza, i colori, la grazia gli servì da pennello.
Poiché, con mille fatiche e sudori, così divina immagine dipinse
né fu idolatra, come ne era pittore: e le sacrificò il mio cuore.
Natura è bedda per c'ha' stilu variu
e zocchi è variu è beddu, à bona cera.
Lu mundu, di lu tempu tributariu,
di quandu in quandu cangia di bandera.
Lu suli in tauru, cancru, libra e aquariu
fa jnvernu, autunnu, stati e primavera.
A mia sulu lu motu, ohimè, è contrariu:
in sulu, sempri, su' a lu statu ch'era.
La natura è bella perché ha un aspetto vario
e ciò che è vario è bello, ha buon aspetto.
Il mondo, debitore del tempo,
di quando in quando cambia bandiera.
Il sole in toro, cancro, bilancia, acquario,
determina l'inverno, l'autunno e l'estate e la primavera.
Per me solo, ohimè, il movimento è contrario: solo io sono sempre allo stato di prima.
Petri, chi frabbicati l'auti mura,
undi lu beni miu chiusu tiniti,
comu (secundu la vostra natura)
a lu gran focu miu non vi cuciti?
Com'a li mei suspiri c'è dimura?
Com'a lu chiantu miu lippu faciti?
A chi occultarmi l'amata figura
vui, chi né gustu, né sensu nd'haviti?
Pietre, che formate le alte mura,
dove il mio bene tenete prigioniero
come (secondo la vostra natura) non vi cocete
al mio gran fuoco di amore?
Come indugiate ai miei sospiri?
Come resistete al mio pianto?
Perché nascondermi l'amato aspetto
voi che, né piacere né intenzione avete?
Acqua, chi ducimenti murmurandu
per undi passi ti smauti la via,
criju, per zertu, chi ti vai avantandu
chi fusti specchiu di la ninfa mia
e di chiù criju chi vai convitandu
ch'ogn'unu vegna a gustarti di tia,
perchì ti detti, standusi lavandu,
parti di chidda grazia c'havia.
Acqua, che dolcemente mormorando
per dove passi tracci il tuo corso
credo, certamente che ti vanti
che fosti specchio della mia ninfa
e inoltre credo che vai invitando
che ciascuno venga a gustarti
perché ti diede, mentre si lavava
parte di quella grazia che aveva.
Torquato Tasso
da "La Gerusalemme Liberata"
Canto I
Mentre l'esercito cristiano sverna in Tortosa, Dio manda a Goffredo l'arcangelo Gabriele, per indurlo ad accettare il comando dell'impresa. I principi adunati a congresso, lo eleggono duce supremo. Fatta la rassegna dell'esercito, i crociati muovono versono Gerusalemme, mentre Aladino si prepara alla difesa.
Canto l'armi pietose (1) e il Capitano (2)
che il gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò col senno e con la mano;
molto soffrì nel glorioso acquisto:
e invan l'Inferno a lui s'oppose, e invano
s'armò d'Asia e di Libia (3) il popol misto;
chè il Ciel gli diè favore, e sotto ai santi
segni (4) ridusse i suoi compagni erranti.
O Musa, (5) tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona, (6)
ma su nel Cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
se intesso fregi al ver, se adorno in parte
d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.
1) Religiose.
2) Goffredo di Buglione.
3) Si intende l'Africa.
4) Sono le bandiere con i simboli cristiani.
5) Probabilmente, Tasso si rivolge alla Vergine Maria.
6) Monte della Grecia, dove abitavano le nove Muse.
Canto III
La città dentro ha lochi in cui si serba
l'acqua che piove, e laghi e fonti vivi;
ma fuor la terra è intorno è nuda d'erba,
e di fontane sterile e di rivi;
né si vede fiorir lieta e superba
d'alberi, e fare scherno ai raggi estivi,
se non se in quanto oltre sei miglia
un bosco, sorge d'ombre nocenti
orrido e fosco.
L'un l'altro esorta che le piante atterri,
e faccia al bosco inusitati oltraggi.
Caggion recise da' taglienti ferri
le sacre palme, e i frassini selvaggi,
i funebri cipressi e i pini e i cerri,
l'elci frondose, e gli alti abeti, e i faggi,
gli olmi mariti, a cui talor s'appoggia
la vite e con piè torto al cien sen poggia.
Canto VI
Tancredi è rimasto estatico ad ammirare Clorinda, che accompagna Argante, poi con Tancredi.
Al giovin Poliferno, a cui fu il padre
su gli occhi suoi (1) già da Clorinda ucciso,
viste le spoglie candide e leggiadre,
fu di veder l'alta guerriera avviso, (2)
e contra le irritò (3) l'occulte squadre;
Né frenando del cor moto improvviso,
(com'era in suo furor subito e folle)
gridò: sei morta: e l'asta invan lanciolle.
Siccome cerva ch'assetata il passo
mova a cercar d'acque lucenti e vive,
ove un bel fonte distillar da un sasso,
o vide un fiume tra frondose rive,
se incontra i cani allor che il corpo lasso
ristorar crede a l'onde, a l'ombre estive,
volge indietro fuggendo, e la paura
la stanchezza obliar face e l'arsura. (4)
1) Sotto gli occhi
2) Parve
3) Le mandò contro
4) La paura fa dimenticare la stanchezza e l'arsura
Canto VII
Erminia, fuggendo, arriva da alcuni pastori, presso i quali dimora.
Intanto Erminia infra l'ombrose piante
d'antica selva dal cavallo è scorta; (1)
Né più governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
il corridor che in sua balìa la porta,
ch'alfin da gli occhi altrui pur si dilegua; (2)
ed è soverchio omai ch'altri la segua.
1) è condotta.
2) Il soggetto è Erminia.
Canto VIII
Io sarò teco ombra di ferro e d'ira
ministra, e t'amerò la destra e il seno.
Così gli parla e nel parlar gli spira
spirito novo di furor ripieno.
Si rompe il sonno e sbigottito ei gira
gli occhi gonfi di rabbia e di veneno;
ed armato ch'egli è, con importuna
fretta i guerrier d'Italia insieme aduna.
Ma già distendon l'ombre orrido velo
che di rossi vapor si sparge e tigne;
la terra in vece del notturno gelo
bagnan rugiade tepide e sanguigne;
s'empie di mostri e di prodigi il cielo,
s'odon fremendo errar larve maligne:
votò Pluton gli abissi, e la sua notte
tutta versò da le tartaree grotte. (Canto IX, 15)
Sono gli infernali segni premonitori della strage; qui Tasso riprende Omero.
Dal Libro III. Rime amorose estravaganti
Qual rugiada o qual pianto,
quai lagrime eran quelle
che sparger vidi dal notturno manto (1)
e dal candido volto de le stelle?
E perché seminò la bianca luna
di cristalline stelle un puro nembo
a l'erba fresca in grembo?
Perché ne l'aria bruna
s'udian, quasi dolendo, intorno intorno
gir l'aure (2) insino al giorno?
Fur segni forse de la tua partita,
vita de la mia vita?
(1) Cielo, che appare come un manto notturno sopra la terra
(2) Passare
Porti la notte il sole
e la candida luna il giorno apporte,
e'l nascer lutto, e gran piacer la morte;
porti la state (1) il gelo,
e 'l ciel diventi a noi l'orrido inferno,
anzi l'inferno il cielo;
rompa sue leggi la natura e 'l fato,
poichè le rompe Amore,
e premio è crudeltà d'un nobil core
e pietà d'uno ingrato.
(1) L'estate
Ne l'aria i vaghi spirti,
han l'onde in mar quiete,
ogni fiume è più tacito di Lete (1)
ima (2) valle, alto monte o verde selva
non ode augello o belva;
sol io con vani accenti
spargo il mio duolo (3) al cielo, a l'onde, a' venti
(1) Il fiume dell'oblio
(2) Profonda
(3) Dolore
Tacciono i boschi e i fiumi,
e 'l mar senza onda (1) giace,
ne le speloche i venti han tregua e pace,
e ne la notte bruna
alto silenzio fa la bianca luna:
e noi tegnamo ascose (2)
le dolcezze amorose:
amor non parli o spiri,
sien muti i baci e muti i miei sospiri.
(1) Tranquillo
(2) Teniamo nascoste
APPROFONDIMENTO SU LAURA TERRACINA
Info tratte da
Laura Terracina, poetessa napoletana del Rinascimento (1519-1577), abitava in una casa campestre; apprezzata da molti suoi contemporanei, viene menzionata nel "Nobiltà delle Donne" di Ludovico Domenichi (1551)
Diceva, di sé, alla sorella:
"Un solo potrà ben farmi voltare
da l'esser mio, e tutta havermi seco:
quando il ciel mi vorrà sposo donare
ch'abbia quel fior, ch'or porto intatto meco;
ma, s'altrimenti volesse operare,
ogni ardito pensier sarebbe cieco..."
Tansillo lodò Laura Terracina con queste parole:
"Giovane bella, a cui le sacre chiome
degnamente 'l gradito arbor d'Apollo
dovria corona dar, come dié nome..."
Vittoria Colonna le esprimeva ammirazione:
"Per esser donna anch'io, donna gentile,
s'io leggo i vostri versi
così leggiadri e tersi,
spiegati in vive carte e 'n puro inchiostro
con che indorate il ferreo secol nostro,
tanto stupore io piglio..."
Si fece conoscere all'Accademia Napoletana degli Incogniti, col nome di "Febea", Accademia soppressa nel 1548.
Il Domenichi ebbe cura di mettere in luce le prime Rime della Terracina, in un elegante volumetto pubblicato nel 1548.
L'anno dopo uscirono le "Rime seconde" e "La prima parte dei discorsi sopra le prime stanze de' canti d'Orlando Furioso", 46 componimenti di tema morale, i cui versi finali erano tratti dalle prime ottave di ciascun canto del Furioso; la Terracina lo considerò il suo "Terze Rime" e nel 1550-1558 uscirono "Quarte Rime", "Quinte Rime", "Seste Rime", "Settime Rime" (conosciuto anche come "Settime rime sovra tutte le donne vedove di questa nostra città di Napoli titolate et non titolate"), "Ottave Rime" e "None Rime" (conosciuto come "Seconda Parte dei discorsi sopra le seconde stanze de' canti d'Orlando Furioso").
Parecchi volumi ebbero molte ristampe (ché ovviamente solo gli idolatri maschilisti di aristotele NON li hanno mai letti e ancora insistono col mantra del "le donne non hanno mai scritto niente, solo il nostro aristotele ha scritto, eh eh!" e devono recuperarsi tipo 2000 anni di bibliografia di altri autori e autrici... poveri trottolini, a volte mi fanno tenerezza, quando sono REALMENTE CONVINTI che solo aristotele, Dante e Manzoni abbiano scritto, e poi, temerari, vengono a sfidarmi in Storia della Letteratura, LOL. Nota di Lunaria)
La Terracina si vantava che non le mancavano mai editori, anche perché i suoi Discorsi andavano a ruba.
(i commenti striminziti che gli idolatri di aristotele lasciano su youtube mica tanto. Nota di Lunaria)
Nel 1572 Laura lasciò la torretta di Chiaia e si recò a Roma; scrisse rime per i cardinali, in occasione del conclave da cui uscì eletto Gregorio XIII
"Mi sono condotta qui, monsignor mio,
solo per veder del mondo anco io un poco,
forse, cangiando hor questo er hor quel luoco,
mutasse la Fortuna il fier desio...
Questa nostra cittade è bella et bona,
ripiena assai di principi et signori;
ma son dispregiator di virtuosi.
Io, che veggio ch'ogn'hor dispensa et dona
a sciocchi, a vili, a latri, a traditori,
indi partirmi al fin lieta disposi"
In un altro si rivolge al cardinal di Chiesa:
"Son vissa, monsignor mio, e vivo ancora
con la penna, con l'aco e con la rocca,
sperando di scacciar mie pene fuora..."
Si sente che la giovinezza era, per lei, passata.
La poetessa, alla morte di parenti e amici, intonava il Cupio Dissolvi in un sonetto composto dopo il 1568 (vi si accenna alla morte del Tansillo, ma in tono cinico):
"Voglio morire anco io: a che son viva?
a che seguo più Apollo? A che soi rai?
poich'ornar non mi posso il capo mai
né di bel lauro né di verde oliva.
Hora esca fuor chi per me canti et scriva,
ch'io non bramo cantar poco, né assai;
perché mi veggio in tanti affanni e guai,
che del mio proprio cor mi veggio priva.
Chi mi darà più odenza come suole,
poiché s'ha tolto al tempo che viveva
Ottinello, Terminio et Tarcagnota?
Di Tancillo non curo, né mi duole
de la sua morte, perché si credea
tener de la Fortuna in man la rota!"
http://deisepolcriecimiteri.blogspot.it/2017/10/commento-qual-rugiada-o-qual-pianto-di.html