Sergio Corazzini


Sergio Corazzini è morto tisico, a 20 anni, nel 1907.


"Toblack" (è il nome della cittadina dove il Poeta si fece ricoverare per curare la tubercolosi)

E giovinezze erranti per le vie,
piene di un grande sole malinconico,
portoni semichiusi,
davanzali deserti, qualche piccola fontana
che piange un pianto eternamente uguale
al passare di ogni funerale,
un cimitero immenso,
un'infinita messe di croci e di corone,
un lento angoscioso rintocco di campana a morto,
sempre, tutti i giorni, tutte le notti,
e in alto un cielo azzurro,
pieno di speranza e di consolazione,
un cielo aperto,
buono come un occhio di una madre
che rincuora e benedice.

Le speranze perdute,
le preghiere vane,
l'audacie folli,
i sogni infranti,
le inutili parole de gli amanti illusi,
le impossibili chimere,
e tutte le defunte primavere,
gli ideali mortali,
i grandi pianti degli ignoti,
le anime sognanti che hanno sete,
ma non sanno bere,
e quanto v'ha Toblack d'irrangiungibile,
e di perduto è in questa tua divina
terra, è in questo tuo sole inestinguibile,
è nelle tue terribili campane,
è nelle tue monotone fontane,
vita che piange,
morte che cammina,
ospedale tetro,
buona penitenza per fratelli misericordiosi,
cui ben fece di sé morte pensosi,
nella quotidiana esperienza,
anche se dal tuo cielo piova,
senza tregua, dietro i vetri lacrimosi.
tiene i lividi tuoi tubercolosi
un desiderio di convalescenza.

Sempre, così finché
verrà la bara, quietamente,
con il crocifisso a prenderli
nell'ultima corsia.
A uno a uno morte li prepara,
e tutti vanno verso
il tetro abisso, lungo,
speranza!
La tua dolce via!
Anima, quale mano pietosa accese
questa sera i tuoi fanali malinconici,
lungo gli spedali (1) ove la morte
miete senza posa?

Vidi lungo la via della Certosa
passare funerali e funerali,
disperata etisia (2) degli ideali,
anelanti la cima gloriosa!

Ora tutto è quieto!
Nelle bare stanno i giovini morti
senza sole, arde in corona
la pietà de' ceri.

Anima, vano è questo lagrimare.

Vani i sospiri,
vane le parole su quanto ancora in te
viveva ieri.


1) Gli ospedali.
2) La tubercolosi



"Sonetto d'Autunno"

Foglie e speranze senza tregua,
foglie e speranze.
Non hanno rami e cuori cadute eguali
allor che i primi ori
Autunno triste su la terra accoglie?

L'anima poi che nell'audaci voglie
si disfece con gli ultimi rossori
della sua giovinezza, in foglie e fiori
malinconicamente si discioglie.

E resta il cuore
e resta il ramo:
soli sospiranti in un intimo richiamo
la rossa estate e il suo vivere corto.

Ma se tornino i buoni e dolci soli primaverili,
rinverranno il ramo
pien di speranze,
e il cuore, invece,
morto.


"Isola dei morti"

Il lampione di San Bartolomeo
non si rassegna alla sua malasorte
il tragico finale della morte rinnovella
il martirio prometeo?
Veglia se vada il funebre
corteo del morto ignoto oltre le fosche
porto ove già tante creature
morte stanno come in un fetido museo.
Su le pietre,
dai luridi lenzuoli cola il sangue nerastro
degli umani che agonizzaron, nelle notti,
soli.

Ritto, immoto, sull'isola terribile
per i fratelli che son lontani arde
il fanale d'odio inestinguibile.


"Follie"

Oh la piccola bara, ricordo, i tetri cerei
e gli arazzi funerei, e poi la follia ignara
e la dolente, l'organo molle e profondo,
i chini frati benedettini che par da terra sorgano
ne la penombra delle colonne, fra gli altari
fiammeggianti, con vari aspetti; e le sorelle
candide, per i bianchi, lunghi, oranti, soave coro,
ne la lor grave veste e la corda ai fianchi,
e tu, e tu, mio amore, piccola, fra le rose
che la mia mano pose su la fronte, su'l cuore.

...

E poi la terra breve, il cipresso diritto
come lancia, lo scritto sopra il marmo di neve,
la croce che non seppe Gesù, le spine,
i chiodi, i pianti che non odi di chi,
di chi non seppe adorarti a bastanza,
e le tombe e i cipressi immobili lungh'essi,
i viali ove danza Monna Morte ghignando
e i cancelli che stridono a ogni bara,
a ogni grido lugubre,
a quando, i fiori gialli che il morto volle seco
per dirsi: "Altrove io reco fiori di terra"
e le lampadette, stelle di cimitero,
tetre su le gelide pietre, lugubri sentinelle,
e le grandi, notturne ali, solcanti l'ombra
paurosa che ingombra le tombe, i marmi, le urne...


"Soliloquio delle cose"

Noi non siamo che cose in una cosa:
immagine terribilmente perfetta del nulla.


"L'anima"

Al mar non più le fragorose acque dei fiumi giungono
desiose di confonder lor voce sonora
con quella che sì forte le innamora da farle
di ogni immagine obliose
ma van per l'onda petali di rose
come se Ofelia vi dormisse ancora.


"Spleen"

Oh che tristezza! Pare, nel biancore lunare,
malata di etisia (*)
con tutte le sue porte chiuse
la nostra via diserta
e quel fanale solo e torbido
pare che attendendo la morte
ne vegli l'agonia.

(*) Tisi




"Esortazione al fratello"

Or tu voglia, nell'ombra, e nella solitudine,
morir questa morte.
Sudario dell'agonizzante
sia il silenzio.




 "La finestra aperta sul mare"

Le antichissime sale
morivano di noia:
solamente l'eco delle gavotte ballate in tempi
lontani da piccole folli signore incipriate,
le confortavano un poco.
Appassito, indefinito, esalavano le cose,
come se le ultime rose dell'ultima lontana primavera,
fossero tutte morte in quella torre triste,
in una sera triste.
E lacrimava per i soffitti pallidi,
il cielo, talvolta sopra lo sfacelo delle cose,
lacrimava dolcemente quietamente
per ore e ore, come un piccolo fanciullo malato.
Dopo, per la finestra veniva il sole, e il mare, sotto cantava.
Cantava l'azzurro amante, cangendo
la torre tristissima di tenerezze improvvise,
e il canto del titano aveva dolcezze,
sconforti, malinconie,
tristezze profonde, nostalgie terribili...
Ed egli le offriva i suoi morti,
tutte le navi infrante, naufragate lontano;
una sera per la malinconia di un cielo
che invano chiamava da ore e ore le stelle,
volarono via con il cuore pieno di tremore
le ultime rondini
e a poco a poco nel mare caddero i nidi:
un giorno non vi fu più nulla
intorno alla finestra.
Allora qualche cosa tremò, si spezzò, nella torre e,
quasi in un inginocchiarsi lento,
di rassegnazione davanti al grigio altare dell'aurora,
la torre si donò al mare.


"Dai soliloqui di un pazzo"

Sbarrò nell'ombra i grigi occhi perduti:
l'alba accoglieva con le dita
bianche le ultime stelle
per i cieli muti.

... Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite,
le idee di una volta.


"Dopo"

Il passo degli umani è simile
a un cader fragile di foglie... Oh!
Primavera di giardini lontani!
Santità delle sere che non hanno domani:
congiungiamo le mani per le nostre preghiere.
Chiuse tutte le porte,
noi veglieremo fino all'alba originale,
fino a che un'immortale stella
segni il cammino, novizii, oltre la morte!



"Trittico"

Nei cimiteri spesse zolle di terra,
fra le croci sassi e nicchie:
dei nomi antichi assai
che sopra i freddi marmi bianchi e austeri
la lebbra de la pietra cancellò...
Monumenti, davanti alle cui porte
ove un lume di morti
stride ed arde
i ragni più feroci
hanno filato le sottili tele...
O vegliardi!
O vegliarde!
Son morti,
son morte!


"Il cimitero"

O Morti ignoti, senza croci,
senza corone fiorite,
ne le brune primavere,
O Morti, a dipartenza vostra
non pianse occhio,
non si piegò ginocchio,
non bocca ebbe preghiere!
O Morti, solo io porto fiori,
alle vostre fosse,
oggi son rose rosse,
che tu, buon Sole,
aprivi!
E pure io sono il morto,
fra questi ignoti spenti,
e voi, morti giacenti,
siete i vivi!


"Ballata a morte"

Vergine coronata per le cave tempie
de' morti desideri umani, più dolce
se più torbido il domani,
consolatrice pallida e soave, ti magnificherò
per distanza lunga
nell'ora taciturna
e viva come le labbra degli oranti a sera,
e t'offrirò la tenue speranza
di colui che s'affanna alla sua riva
piccola e gaia,
nella primavera tediosa,
dal sogno che s'avvera
e t'aprirò con le sue mani
il cuore giovine e grave
per il triste amore,
porto facendo a desiata nave.