Ovidio


"Bacco e Arianna". Brano tratto dall'Antologia di Scrittori Latini a cura di Marchesi e Campagna (Casa Editrice Giuseppe Principato, 1967)

Arianna, figlia di Minosse, re di Creta, era partita dalla terra natale seguendo Teseo, ch'essa aveva aiutato a uscire dal labirinto, dopo aver ucciso il Minotauro; ma nell'isola di Nasso, l'eroe ateniese abbandonò la fanciulla mentre era immersa nel sonno. Il poeta descrive la sventurata eroina, appena desta dal sonno, che va stordita e pazza per quell'isola sconosciuta; e dallo stordimento, appena sente l'orribile realtà dell'abbandono e del tradimento, passa all'urlo, all'invettiva vana e disperata lanciata per i flutti impassabili e sordi. E finalmente viene il grido angoscioso e disperato: "Che ne sarà di me?" mentre intorno incombe un mostruoso silenzio di solitudine marina. "Che ne sarà di me?" ripete disperatamente Arianna. Ed ecco subitaneo, assordante, lo scoppio del corteo bacchico, che rimbomba frenetico per tutta la spiaggia.
Arianna viene quindi portata via dal Dio e assunta in cielo tra le costellazioni boreali.


Sopra le ignote arene errava Arianna, impazzita, dove l'ondata batte la sponda dell'isola Dia.
Desta dal sonno, un velo di tunica intorno le svola: e nudi i piedi e sciolte le bionde chiome.
"Teseo crudele!" ai flutti, che non udivano, urlava: e un gran pianto rigava le tenere guance innocenti.
Gridava e piangeva: ma il grido e il pianto le davano grazia; il pianto non aveva alterato il volto suo bello.
Battea, battea con le palme il morbidissimo seno. "Lo spergiuro è fuggito", diceva, "E di me che sarà?"
Diceva "E di me che sarà?" Ah! Scoppia per tutta la spiaggia un suon di cembali e timpani percossi da mani furenti.
Ella cade atterrita; né più profferisce parola. Esangue era il suo corpo come corpo di morta.
Eccole, le Baccanti, cosparsi i capelli sul dorso: eccoli, i lievi Satiri, che in folla precedono il Dio.
Oh sul curvo asinello ecco il vecchio ecco l'ebbro Sileno, che barcolla e si aggrappa alla criniera, e via dietro alle Baccanti: ed esse via scappano e tornano, e quello da' da' con la canna alla bestia, il cavaliere maldestro, finché fa un capitombolo giù dall'orecchiuto asinello.
Gridano i satiri: "O Padre, su, levati levati, su!"
Eccolo il Dio! Dal carro che avea coronato di grappoli, il dio le tigri aggiogate guidava con redini d'oro.
Teseo, calore, voce, tutto perdè la fanciulla; tre volte ella tenta la fuga, tre volte il terrore la inchioda.
Rabbrividì tremando, come al vento la sterile spiga, come le canne lievi nell'acquosa palude.
Il Dio le parla: "Io vengo amore più fido al tuo amore. Non temere: di Bacco sarai, Arianna, la sposa. Io t'offro il cielo; dal cielo più volte alla nave smarrita, darà fulgente stella, la Gnosia Corona la via."
Disse, e balzò dal cocchio, perchè non temesse le tigri, la sua fanciulla. E il lido cedeva di sotto ai suoi passi.
La portò via serrata fra le sue braccia; era vano ogni contrasto. Un Dio facilmente può tutto.
Si leva ora il canto: "Imeneo". Risuona ora il grido "Evoè!"


***

Gnosis in ignotis amens errabat harenis,
qua brevis aequoreis Dia feritur aquis;
utque erat e somno tunica velata recincta,
nuda pedem, croceas inreligata comas,
Thesea crudelem surdas clamabat ad undas
indigno teneras imbre rigante genas.
Clamabat flebatque simul; sed utrumque decebat:
non facta est lacrimis turpior illa suis.
Iamque iterum tundens mollissima pectora palmis
"Perfidus ille abit! Quid mihi fiet?" ait.
"Qui mihi fiet?" ait: sonuerunt cymbala toto
litore et attonita tympana pulsa manu.
Excidit illa metu rupitque novissima verba;
nullus in exanimi corpore sanguis erat.
Ecce Mimallonides sparsis in terga capillis,
ecce leves Satyri, praevia turba Dei,
Ebrius ecce senex: pando Silenus asello
Vix sedet et pressas continet arte iubas;
dum sequitur Bacchas, Bacchae fugiuntque petuntque,
quadrupedem ferula dum malus urget eques,
in caput aurito cecidit delapsus asello:
clamarunt Satyri "Surge age, surge Pater!"
Iam Deus in curru, quem summum texerat uvis,
tigribus adiunctis aurea lora dabat:
et color et Theseuset vox abiere puellae
terque fugam petit terque retenta metu est;
horruit, ut sterilis agitat quas ventus aristas,
ut levis in madida canna palude tremit.
Cui Deus "en, adsum tibi cura fidelior", inquit,
"Pone metum: Bacchi, Gnosias, uxor eris!
Munus habe caelum: caelo spectabere sidus;
saepe reges dubiam Cressa Corona ratem."
Dixit, et e curru, ne tigres illa timeret,
deesilit: inposito cessit harena pede:
inplicitamque sinu (neque enim pugnare valebat)
abstulit: in facili est omnia posse Deo.
Pars "Hymenaee" canunt, pars clamant Euhion, "Euhoe!"