Poesia Russa


FEDOR TJUTCEV

"Sera d'Autunno" (1830)

Nella chiarezza v'è delle autunnali
sere un tenero, misterioso incanto:
lo splendore degli alberi sinistro,
il languido frusciare delle foglie
porporine, il velato e calmo cielo
sopra la terra triste e desolata,
e, annunzio delle prossime bufere,
un brusco, freddo vento qualche volta,
un mancare e sfinirsi - e quel sorriso
mite di sfioritura, su ogni cosa,
che in essere senziente noi chiamiamo
sacro pudore della sofferenza.


"Mal'aria"
(1830)

Amo questo divino sdegno, questo celato,
questo segreto Male, presente in ogni cosa:
nei fiori, nella fonte diafana come vetro,
negli irridati raggi, fin nel cielo di Roma.
Lo stesso firmamento sgombro di nubi, eccelso,
e parimenti il petto leggero e dolce spira,
lo stesso vento caldo che dondola le cime,
lo stesso odor di rose: e tutto questo è Morte!


"Mattino di Dicembre"
 (1859)

La luna in cielo, e imperturbata
l'ombra notturna è tuttavia:
regna tranquilla, senza darsi conto
che il giorno ormai già s'è scrollato,
che, sebben pigri e dubitosi,
l'uno s'aggiunge all'altro raggio
nel mentre il cielo del notturno
trionfo tutto ancora splende.
Ma non andranno due, tre istanti,
vaporerà la note dalla terra,
e col fulgore delle apparizioni,
ci avrà afferrati il mondo diurno....

Ancora è triste il volto della terra,
ma l'aria spira primavera
e dondola nel prato il morto stelo
ed agita le rame degli abeti.
Ancora la natura non è desta,
ma di tra il meno fondo sonno
la primavera essa ha sentito
e involontariamente le ha sorriso...
Anche tu, anima, dormivi...
Ma che d'un tratto ti sommuove,
carezza e bacia il sonno tuo
ed i tuoi sogni indora?... splende
ogni zolla di neve si discioglie,
splende l'azzurro, ferve il sangue....
è la delizia della primavera
questa?... è l'amore d'una donna?....

(1836)



ANNA ACHMÀTOVA

Celebre poetessa russa, nata ad Odessa nel 1889 e morta a Mosca nel 1966. 
Gumilev, suo primo marito, venne fucilato per attività controrivoluzionaria e alcuni suoi amici poeti vennero imprigionati nei gulag staliniani.
Anche il figlio della poetessa, Lev, venne incarcerato e condannato a morte. Il poemetto "Requiem" nasce da questa esperienza.
La dittatura ostacolò l'opera poetica della Achmatova e la sua poesia si fa opera poetica di un intero popolo.


Strinsi le mani sotto il velo oscuro...
"Perché oggi sei pallida?"
Perché d'agra tristezza
l'ho abbeverato fino ad ubriacarlo.
[...]

*

Mi perdonerai questi giorni di novembre?
Sui canali della Nevà tremolano le luci.
Poveri addobbi di un tragico autunno.

*

Quali strani parole mi ha portato
la serena giornata di aprile.
Lo sai, dentro di me era ancora viva
l'orrenda settimana di passione.
[...]
Ed io, coprendomi il viso,
quasi per un eterno abbandono,
giacevo ed attendevo quella cosa
che ancora non si chiamava tormento.

*

Translucido vetro di cieli deserti,
mole bianca della grande prigione,
solenne canto di una processione
lungo il Vòlchov, luminoso di azzurro.

Il vento di settembre defolia una betulla,
ulula e turbina fra i rami,
e la città ricorda il suo destino:
qui regnò Marfa, qui regnò Arakčéev.

*

No, non sono io, è qualcun altro che soffre.
Io non potrei esser così, ma quel che è successo
neri drappi lo ricoprano,
e portino via le lanterne...
Notte.

*

E quel cuore più non risponderà
alla mia voce, esultante e afflitto.
Tutto è finito... e il mio canto risuona
nella notte, ove più tu non sei.

*

"Prologo" (1963)

Si ode lontano:

accarezzando spaventi, offendi supplicando
entri senza bussare.
Tutto sarà con te piacere,
perfino lasciarsi.
Si spande pure nella sorte nefasta
la schiuma scarlatta,
ma risuoni come giuramento a te
perfino il tradimento...
di colei che conobbe il terrore e l'onore
d'una vita d'oltretomba...
pronunciare il tuo nome ora per me
è come morire.

*

Di nuovo l'autunno irrompe come un tamerlano,
nei vicoli dell'arbat c'è silenzio.
Al di là della stazioncina o della nebbia
è nera la strada impraticabile.
Ordunque, è l'ultimo! anche il furore cessa.
Non importa che il mondo si sia fatto sordo...
Possente vecchiezza del vangelo
e quell'amarissimo sospiro del Gethsemani

*

"Primo preavviso"

In fondo che cosa c'importa
che tutto si tramuti in cenere,
su quanti abissi ho cantato
in quanti specchi ho vissuto?
Che io non sia né sonno né gioia
e meno di tutto, grazia beatificante
ma, forse, più di quanto necessiti
ti toccherà rammentare
e il rombo dei versi smorzantisi,
e l'occhio che al fondo nasconde
quel rugginoso serto pungente
nel suo silenzio angoscioso


****

EVGENIJ ALEKSANDROVIč EVTUšENKO

"Ghiaccio" (1956)

Ti distinguo a fatica.
Che cosa ha combinato l'acqua intorno!
Ci troviamo disgiunti dal ghiaccio.
Su sponde di ghiaccio diverse.

Boschi e case si sono assottigliati.
L'acero ondeggia pallido, sparuto.
Le voci adagiatesi sull'acqua,
chete con l'acqua avanzano.

Gemono e affondano i lastroni nella lotta,
e tu sei sottile, ghiacciolo in lontananza,
e il relitto di un sentiero verso te
il fiume porta via per la corrente...


"Gli stagni dei patriarchi" (1957)

Sono velati di nebbia gli stagni dei Patriarchi.
Il loro mondo di ombre è misterioso e fragile,
e gli azzurri riflessi delle barche
sono visibili sul verde scuro dell'acqua.
Nel giardino pubblico volti biancheggiano a ogni angolo.
[...]
E vede quello che io pure vedo:
un bosco a sera, grandi ombre che si spostano,
la fioca luminescenza dei mughetti
[...]
E di nuovo le sue orme spariscono


(Poesia del 1960)

Mi stai accanto, ma è come non ci fossi.
E in realtà mi hai abbandonato.
Con in mano un'azzurrognola luce,
tra le ceneri vaghi del passato.
[...]
Tu non potevi amarlo come tale,
le sue rovine invece hai amato.
Hanno potere forte le polveri, le ceneri,
di certo in sé nascondono qualcosa.


"Ultimo tentativo" (1987)

[...] Là, sulle mie ossa frantumate
posatasi, una libellula riposa
e brulicano formiche indifferenti
nel vuoto, occhi d'un tempo.
Fattomi anima, il corpo ho abbandonato,
sgusciando dal tritume delle ossa.
Ma di far parte dei fantasmi stufo,
sento di abissi innumeri il richiamo.
Più che un cadavere spaventa un fantasma innamorato.
[...] bianche ali dispiegate,
abisso sulla nebbia, sollevato.
E sulla nebbia noi siamo distesi,
che ci sorregge appena,
non sopra un talamo.

***

Un estratto del bellissimo "Il Demone" di Michail Jur'evic Lermontov.


"Respinto da remoti tempi, errava senza asilo nel deserto del mondo: e i secoli inseguivano i secoli come un minuto dietro l'altro in una successione monotona... Non più li attende silenziosa tomba sotto le pietre di qualche monastero dove la cenere degli avi è sepolta... Ed ecco che solitaria e bella s'alza in cielo la bicorna luna, e nel monastero addormentato s'inoltra il Tenebroso Tentatore..."

Questi sono alcuni degli splendidi versi del poema "Il Demone" di Lermontov, un capolavoro della Letteratura Romantica Russa. Lermontov, basandosi sul mito dell'amore tra Angeli Caduti e donne umane, ha immaginato che Lucifero, l'Angelo Caduto più bello (e difatti nel poema non viene descritto in termini mostruosi, ma è sempre molto seducente), si innamorasse di una principessa georgiana, Tamara, che a seguito della morte del suo fidanzato, si ritira in un convento.

I monologhi di Lucifero, che spesso rivolge a un altro Angelo, hanno il gusto tipicamente romantico della ribellione contro l'autorità, del fascino del Male e della dannazione. Lermontov è affascinato da Lucifero e malgrado il poema si concluda con la scelta di Tamara di andare in Paradiso (quindi rifiuta l'amore offertole da Lucifero) la parte del bacio tra Lucifero e Tamara è sensualissima, tanto che Tamara muore in seguito a tale bacio.
Pur essendo lo Spirito del Male, Lucifero nelle pagine di Lermontov è un personaggio che non ha perso il suo fascino, ed è visto per l'appunto come il Portatore della Luce, tuttora il più Splendido Arcangelo.
Rispetto a "Caino" di Byron, il Lucifero lermontoviano è più carnale e passionale, specialmente nell'ultimo dialogo con Tamara dove le confessa il suo amore e le dice che le regalerà le cose più belle del creato.
E' un poema interessante e non merita l'oblio in cui spesso è relegato.
Per questo ho voluto riportarlo.



"Il Cantare delle Gesta di Igor" (1185)

Ricolmo d'estro guerriero, Egli Guidò le Sue brave legioni contro la terra cumana in pro della terra di Russia.

Ed Igor guardò allora al sole sereno ed i guerrieri suoi tutti ne vide avvolti di tenebra.

E Igor disse alla Sua compagnia:

Voglio -disse- spezzare una lancia insieme con voi sullo stremo del campo cumano.

Allora Il Principe Igor montò sulla staffa d'oro e cavalcò per la rada pianura. Il sole gl'ingombrò il cammino di tenebra.

Svegliò gli uccelli la notte, gemebonda su lui di bufera; e li gremì in centurie il sibilo delle bestie feroci.

Div urla dalla vetta dell'albero, ed esige ascolto dalla terra estrania: dal Volga e dal Litorale, dall'Oltresula e Sugdea, da Chersoneso e da te, idolo di Tmutorokàn...

E i Cumani fuggirono verso il grande Don per vie non battute; i loro carri gridano nel cuor della notte, quasi cigni sbandati: Igor guida i guerrieri alla volta del Don!

Innanzi della sciagura di Lui gli uccelli si nascondono sotto le nuvole; nei burroni la bufera annunziano i lupi; le aquile col loro richiamo invitano le fiere alle ossa; ululano le volpi contro gli scudi scarlatti.

Tu sei ormai oltremonte, o terra di Russia!

Tardo s'estinse nella notte il crepuscolo.

S'incendiò l'alba e avvolse i campi di una bruma.

S'assopì il gorgheggio degli usignoli, risvegliando il chiacchierio dei gracchi.

I figli di Russia sbarrarono le vaste pianure dei loro scudi scarlatti, in cerca d'onore per sé, e di Gloria per Il Principe.

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L'indomani precoci albori sanguigni annunziano il giorno.

Dal mare sopraggiungono nuvole nere; vogliono i quattro soli offuscare: e dentro vi trasaliscono fulmini azzurri.

Ha da venire un gran tuono. Ha da cadere una pioggia di frecce dal grande Don.

Qui toccherà alle lance d'infrangersi e di scheggiarsi alle sciabole, contro gli elmi cumani, nei paraggi del grande Don.

Tu sei ormai oltremonte, o terra di Russia!

Ecco i venti, nipoti di Stribòg, che soffiano dal mare a guisa di dardi contro le forti squadre di Igor.

Rintrona il terreno, i fiumi scorrono torbidi, nembi di polvere avvolgono i campi.

Le insegne annunziano: i Cumani vengono dal Don e dal mare.

Ed hanno d'ogni parte assediato le schiere di Russia.

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Dall'alba al vespro, dal vespro all'aurora volano le saette di buona tempra, le sciabole rintronano sugli elmi, scrosciano le lance d'acciaio franco.

Nell'estrania pianura, nel cuore della contrada cumana, il terreno annerito sotto gli zoccoli fu seminato d'ossa e irrigato di sangue: e in malanno germogliarono su per la terra di Russia.

Che strepito, che fragore giunge al mio orecchio!