Vincenzo Monti

Info tratte da








Vincenzo Monti nacque in Romagna, nel 1754 e morì a Milano nel 1828. Visse in un periodo di profondi rivolgimenti politici e sociali. L'Illuminismo aveva educato gli uomini a quei principi di libertà ed uguaglianza, che la Rivoluzione Francese aveva attuato e Napoleone diffuso in Europa; poi, dopo il crollo napoleonico, la restaurazione e il ritorno dell'assolutismo; e sullo sfondo di questi eventi grandiosi un'opinione pubblica ora esaltata, ora mutevole e incerta. Vincenzo Monti in verità non ebbe, in un periodo così agitato, la salda coscienza morale e il carattere fermo che abbiamo riscontrato nel Parini; ci rattrista, perciò nelle sue manifestazioni politiche, quella volubilità che lo portò ad esaltare prima i conservatori poi i giacobini quindi Napoleone e infine l'Austria.
I principali momenti della vita e della produzione poetica del Monti si possono riportare a questi suoi diversi e contrastanti atteggiamenti. A Roma, dove rimase per un ventennio, esaltò Papa Pio VI in un'ode  ("La prosopopea di Pericle"); compose "La Bellezza dell'Universo", in occasione delle nozze del nipote di Pio VI; scrisse inoltre la "Bassvilliana": Monti immagina che l'anima di Ugo Bassville, segretario della Legazione Francese a Napoli, ucciso dal popolo a Roma, dove si era recato per far propaganda rivoluzionaria, venga raccolta da un angelo e guidata, prima di essere assunta in cielo, ad assistere agli orrori della Rivoluzione Francese e al supplizio di Re Luigi XVI.
Dopo la caduta della Repubblica Cisalpina, si rifugiò a Parigi. Intanto Napoleone sconfiggeva gli Austriaci e il Monti potè tornare in Italia. L'esaltazione di Napoleone durò fino al ritorno degli Austriaci (1815), dai quali ottenne una piccola pensione.
Questa volubilità è dovuta soprattutto al fatto che il Monti non ebbe un vero interesse politico e si faceva interprete della mutevole opinione pubblica.
Come poeta, il Monti è il maggior rappresentante del Neoclassicismo. Il Leopardi lo considerò un "poeta dell'orecchio e dell'immaginazione, del cuore in nessun modo"; possiede, infatti, un'immaginazione fervida ed una finissima sensibilità che gli fanno cogliere i colori più tenui e vari del paesaggio che egli disegna in versi dal ritmo spesso incantato. La poesia del Monti è tecnicamente perfetta, ma raramente vibra di sentimento profondo; l'espressione formale è impeccabile e musicale, ma non è animata da quell'intima commozione da cui sempre muove l'arte.



Inizio dall' "Aristodemo"

Atto Primo, scena I

PALAMEDE: Narrerò sincero,
qual mi fu detta, la pietosa istoria
di questo sventurato. Era Messene
da crudo morbo desolata; e Delfo
della stirpe d'Epito una donzella
avea richiesta in sacrificio a Pluto.
Poste furo le sorti, e di Licisco
nomar la figlia. Scellerato il padre
e in un pietoso con segreta fuga
la sottrasse alla morte; e un'altra vittima
il popolo chiedea. Comparve allora
Aristodemo, e la sua propria figlia,
la bellissima Dirce, al sacerdote
volontario offerì. Dirce fu dunque
dell'altra invece su l'altar svenata;
e col virgineo sangue l'infelice
sbramò la sete dell'ingordo Averno,
per salvezza de' suoi dando la vita.

LISANDRO: Io già questo sapea; chè grande intorno
fama ne corse, e della madre insieme
dicea caso nefando.

PALAMEDE: Ella, di Dirce
mal soffrendo la morte, e stimolata
da dolor, da furor, squarciossi il petto
spietatamente, ed ingombrò la stanza
cadavere deforme e sanguinoso,
raggiungendo così nel morto regno,
forsennata e contenta ombra, la figlia,
ed ecco dell'afflitto Aristodemo
la seconda sventura [...]
Dopo il fatto d'Argia tutto lasciossi
a sua tristezza in preda Aristodemo;
né mai diletto gli brillò sul core,
o, se brillovvi, fu di lampo in guisa
che fa un solco nell'ombra e si dilegua.
Ed or lo vedi errar mesto e pensoso
per solitari luoghi, e verso il cielo
dal profondo del cor geme e sospira;
or vassene dintorno furibondo
e pietoso ululando; e sempre a nome
la sua Dirce chiamando, a' piè si getta
della tomba che il cenere ne chiude;
singhiozzando l'abbraccia, e resta immoto,
immoto sì, che lo diresti un sasso,
se non che vivo lo palesa il pianto
che tacito gli scorre per le fote
ed inonda il sepolcro. Ecco, o Lisandro,
dell'infelice il doloroso stato.


Scena IV

ARISTODEMO: Così pur fosse!
Ma mi conosci tu? Sai tu qual sangue
dalle mani mi gronda? Hai tu veduto
spalancarsi i sepolcri, e dal profondo
mandar gli spettri a rovesciarmi il trono?
A cacciarmi le mani entro le chiome
e strappar la corona? Hai tu sentito
tonar dintorno una tremenda voce
che grida "muori, scellerato, muori!"
Sì morirò; son pronto: eccoti il petto,
eccoti il sangue mio; versalo tutto,
vendica la natura, e alfin mi salva
dall'orror di vederti, ombra crudele.
[...] Ma che pretendi
col tuo pregar? Tu fremerai d'orrore
se il vel rinnovo del fatal segreto.

GONIPPO: E che puoi dirmi che all'orror non ceda
di vederti spirar su gli occhi miei?
[...] Ohimè! che ferro è quello?

ARISTODEMO: Ferro di morte. Guardalo. Vi scorgi
questo sangue rappreso?

GONIPPO: Oh dio! qual sangue?
Chi lo versò?

ARISTODEMO: Mia figlia. E sai qual mano
glielo trasse dal sen?

GONIPPO: Taci, non dirlo:
che già t'intesi.

ARISTODEMO: [...] Così de' sacerdoti alla bipenne
la mia Dirce proffersi. Al mio disegno
s'oppose Telamon di Dirce amante.
Supplicò, minacciò [...] e palesommi non potersi Dirce
sagrificar; dal nume esser richiesto
d'una vergine il sangue, e Dirce il grembo
portar già carco di crescente prole,
ed esso averne di marito i diritti.
[...] Da profondo furor, venni alla figlia.
Abbandonata la trovai sul letto,
che pallida, scomposta ed abbattuta,
in languido letargo avea sopiti
gli occhi dal lungo lagrimar già stanchi.
[...] La rabbia
m'avea posta la benda, e mi bolliva
nelle vene il dispetto; onde, impugnato
l'esecrando coltello e spento in tutto
di natura il ribrezzo; alzai la punta,
e dritta al core gliel'immersi in petto.
Gli occhi aprì l'infelice, e mi conobbe;
e coprendosi il volto: "Oh padre mio,
oh padre mio", mi disse, e più non disse.

GONIPPO: Gelo d'orrore.

ARISTODEMO: L'orror tuo sospendi;
ché non è tempo ancor che tutto il senta
sull'anima scoppiar. Più non movea
né man né labbra la trafitta: ed io,
tutto asperso di sangue e senza mente,
ché stupido m'avea reso il delitto,
della stanza n'uscia, quando al pensiero
mi ricorse l'idea del suo peccato.
E quindi l'ira risorgendo, e spinto
da insensatezza, da furor, tornai
sul cadavere caldo e palpitante;
ed il fianco n'apersi, empio!, e col ferro
stolidamente a ricercar mi diedi
nelle fumanti viscere la colpa.
[...] Corsemi per l'ossa
il raccapriccio, e m'impietrò sul ciglio
le lagrime scorrenti: e così stetti,
finché improvvisa entrò la madre, e, visto
lo spettacolo atroce, s'arrestò
pallida, fredda, muta. Indi qual lampo
disperata spiccossi, e, stretto il ferro
ch'era poc'anzi di mia man caduto,
se lo fisse nel petto, e su la figlia
lasciò cadersi, e le spirò sul viso.
[...] I sacerdoti, che del ciel la voce
son costretti a tacer quando i potenti
fan la forza parlar, taciti e soli
col favor delle tenebre nel tempio
la morta Dirce trasportaro; e quindi
creder fero che Dirce in quella notte
segretamente su l'altar svenata
placato avesse col suo sangue i numi,
e che di questo fieramente afflitta
sè medesma uccidesse anche la madre.
[...] Da qualche tempo
un orribile spettro...

GONIPPO: Eh! Lascia al volgo
degli spettri la tema, e dai sepolcri
non suscitar gli estinti [...]

 
Atto Terzo, Scena VII
 
ARISTODEMO: Ebben: sia questo adunque
l'ultimo orror che dal mio labbro intendi.
Come or vedi tu me, così vegg'io
l'ombra sovente della figlia uccisa;
ed, ahi, quanto tremenda! Allor che tutte
dormon le cose, ed io sol veglio e siedo
al chiaror fioco di notturno lume;
ecco il lume repente impallidirsi;
e nell'alzar degli occhi ecco lo spettro
starmi d'incontro, ed occupar la porta
minaccioso e gigante. Egli è ravvolto
in manto sepolcral, quel manto stesso
onde Dirce (1) coperta era quel giorno
che passò nella tomba. I suoi capelli,
aggruppati nel sangue e nella polve,
a rovescio gli cadono sul volto,
e più lo fanno, col celarlo, orrendo.
Spaventato io m'arretro, e con un grido
volgo altrove la fronte; e me 'l riveggo
seduto al fianco. Mi riguarda fiso,
ed immobil stassi, e non fa motto.
Poi, dal volto togliendosi le chiome
e piovendone sangue, apre la veste,
e squarciato m'addita, ahi vista!, il seno
di nera tabe (2) ancor stillante e brutto.
Io lo rispingo; ed ei più fiero incalza,
e col petto mi preme e colle braccia.
Parmi allor sentir sotto la mano
tepide e rotte palpitar le viscere:
e quel tocco d'orror mi drizza i crini.
Tento fuggir, ma pigliami lo spettro
traverso i fianchi e mi trascina a' piedi
di quella tomba, e "Qui t'aspetto" grida,
e ciò detto, sparisce."

GONIPPO: Inorridisco.
O sia vero il portento o sia d'afflitta
malinconica mente opra ed inganno,
ti compiango, mio re. Molto patirne
certo tu dèi; ma disperarsi poi
debolezza saria. Salda costanza
d'ogni disastro è vincitrice. Il tempo,
la lontananza dileguar potranno
de' tuoi spirti il tumulto e la tristezza.
Questi luoghi abbandona, ove nudrito
da tanti oggetti è il tuo dolor. Scorriamo
la Grecia tutta, visitiam cittadi,
vediamone i costumi. In cento modi
t'occuperai, ti distrarrai... Che pensi?
Oimè! Che tenti, sconsigliato?"

ARISTODEMO: Io stesso
entrar là dentro.

GONIPPO: In quella tomba? Oh stelle!
Ferma! A qual fine?

ARISTODEMO: A consultar quell'ombra.
O placarla, o morir.


(1) è il nome della figlia uccisa da Aristodemo
(2) sangue


Da "Galeotto Manfredi"

Ubaldo: "Il mio pensiero manifesto il feci,
quando al fatal tributo io qui m'opposi
in questo luogo, e periglioso il dissi,
funesto il presagii. Fumanti i campi
son di strage, io gridai; vote di sangue
abbiamo le vene, e ancor dolenti e rosse
le cicatrici."

Del Monti trascrivo anche qualche lirica:

"La Bellezza dell'Universo" (1781)

Stavasi ancora la terrestre mole
del caos sepolta nell'abisso informe
e sepolti con lei la luna e il sole;

[...]

Teco scorrea per l'infinito; e, quando
dalle cupe del nulla ombre ritrose
l'Onnipossente Creator comando

uscir fe' tutte le mondane cose,
e al guerriggiar degli elementi infesti
silenzio e calma inaspettata impose,

[...]

Penetrò nelle cupe acque profonde
quel guardo; e con bollor grato natura
intiepidille, e diventar feconde:

[...]

Tu del nero Aquilon (1) su le funeste
ale per l'aria alteramente vieni,
e passeggi sul dorso alle tempeste:

ivi spesso d'orror gli occhi sereni
ti copri, e mille intorno al capo accenso
rugghiano i tuoni e strisciano i baleni.


"Di tante faci alla silente e bruna notte trapunse la tua mano il lembo e un don le vesti della bianca luna, e di rose all'aurora empesti il grembo, che poi sovra i sopiti egri mortali piovon di perle rugiadose un nembo."

(1) il vento del nord


"Per il giorno onomastico della mia donna Teresa Pikler" (1781)

Donna, dell'alma mia parte più cara
perché muta in pensoso atto (1) mi guati, (2)
e di segrete stille (3)
rugiadose si fan le tue pupille?
Di quel silenzio, di quel pianto intendo,
o mia diletta, la cagion. L'eccesso
de' miei mali (4) ti toglie
la favella, e discioglie
in lacrime furtive il tuo dolore [...]

Questo componimento fu composto dal poeta a 72 anni, quando era colpito da paralisi alla parte sinistra del corpo; si trovava  ospite dall'amico Luigi Aureggi, assistito dalla moglie Teresa e dalla figlia Costanza. Avvicinandosi il giorno onomastico della moglie, compone per lei questa canzone libera.

(1) esprime la trepidazione della moglie, che teme prossima la morte del poeta
(2) mi guardi
(3) lacrime segrete
(4) i mali del poeta sono tanti

"Al principe don Sigismondo Chigi"

Me misero! Non veggo
che lugubri deserti; Altro non odo
che urlar torrenti e mugolar tempeste.
Dovunque il passo e la pupilla movo,
escono d'ogni parte ombre e paure,
e muta stammi e scolorita innanzi
qual deforme cadavere la terra.

Tutto è spento per me. Sol vive eterno
il mio dolor, né mi riman conforto
che alzar le luci al cielo e sciormi in pianto.
Ah che mai vagheggiarti io non dovea,
Fatal beltade! Senza te venuto
questo non fòra orribil cangiamento.

[...]

Ma in que' vergini labbri, in que' begli occhi
aver quest'occhi inebriati, e dolce
sentirmi ancor nell'anima rapita
scorrere il suono delle tue parole;

[...]

Allor requie non trovo. Io m'alzo, e corro
forsennato pe' campi, e di lamenti
le caverne riempio, che dintorno
risponder sento con pietade. Allor
per dirupi m'è dolce inerpicarmi,
e a traverso di folte irte boscaglie
aprir la via col petto, e del mio sangue
lasciarmi dietro rosseggianti i dumi (1)


(1) i cespugli


"Il ritratto" (1820)

Pianse fra i traci orrori
le funeste faville
dei mal concessi amori
l'abbandonata Fille.

(Fille è il nome di una pastorella, tipicamente cantata dalla poesia d'Arcadia o Neoclassica)


"Sermone sulla mitologia" (1820)

Ai lemuri e alle streghe. In tenebrose
nebbie soffiate dal gelato Arturo (1)
si cangia (orrendo a dirsi!) il bel zaffiro
dell'italico cielo; in procellosi
venti e bufere le sue molli aurette;
i lieti allori dell'aonie rive
in funebri cipressi; in pianto il riso;
e il tetro solo, il solo tetro è bello.

[...]

Chi voce mi darà lena e pensieri
al subbietto gentil convenienti?
Forse l'austero genio inspiratore
delle nordiche nenie? Ohimè! Chè, nato
sotto povero sole e fra i ruggiti
de' turbini nudrito, ei sol di fosche
idee si pasce e le ridenti abborre,
e abitar gode ne' sepolcri e tutte
in lugubre color pinger le cose.

[...]

Di fè quindi più degna
cosa vi torna il comparir d'orrendo
spettro sul dorso di corsier morello
venuto a via portar nel pianto eterno
disperata d'amor cieca donzella,
che, abbracciar si credendo il suo diletto,
stringe uno scheltro spaventoso, armato
d'un oriuolo a polve e d'una ronca;
mentre a raggio di luna oscene larve
danzano a tondo, e orribilmente urlando
gridano pazienza, pazienza!

(1) una stella del Carro di Boote, una costellanzione settentrionale


"Discesa di Cristo all'Inferno e al Limbo" (1770)

"Quando scendeva nelle valli inferne tra suoi trionfi glorioso e forte Cristo, e già carca di catene eterne, dietro alle spalle si trae la Morte, calar verso le cupe atre caverne, Satan lo vide per vie fosche e torte e timoroso alle spelonche interne con cento ferri assicurò le porte... Del cieco limbo allor le tenebrose si rallegran taciturne sedi e in Luce che foriera e fiammeggiar è d'alte cose, arde dovunque e fiameggiar le vedi. Deste de' padri l'ombre son acchiose, del Ciel promesso non per anco eredi serenando le fronti atre e rugose, levar la testa e si rizzaro in piedi. Fa lieto più d'ogni altro il volto afflitto, Adam, che ancor del serpe iniquo e tristo, piangea la frode del dolor trafitto."


"Il pellegrino apostolico" (1782)

Squallide e con lugubre mormorio
affollate le turbe in Vaticano
traeansi a dirgli il doloroso addio;

[...]

Là dove nell'orror sacro dell'urna
dorme di Pietro in sotteranea sede
l'apostolica polve taciturna.

[...]

Ed altri mostri che diverse avieno
di prudente virtù forme mentite
e le labbra stillanti di veleno.

[...]

Fin dentro il lago dell'eterne pene
giunse il suon della tuba; e un cupo udissi
doppio stridor di denti e catene.


"Il fanatismo" (1797)

Oh crudeli di Spagna e di Lisbona
orrendi roghi! e voi di strage rosse
contrade di Beziers e Carcassona!

[...]

Ululate, ruggite in ogni lido,
agitate le tombe, sollevate
per l'universo di vendetta il grido!

Spingi l'onde di strage affaticate,
Loira, al mare, se il mar non si ritira
nel vederle sì gonfie e insanguinate.


"La superstizione"
(1797)

Quale da tetti la notturna strige
dolorosa sull'alme il canto invia,
quando pallide ombre escon di Stige,

tal di questi è la trista psalmodia,
che fa de' claustri risonar gli orrori
e il sonno dei gravati occhi disvia.

[...]

E brune per le strade orrende croci
procedean fra il pallore e il fragor mesto
di meste faci e di tartaree voci.


"Il pericolo"
(1797)

E scomposte le chiome in su la testa
d'irti vepri (1) parean selva selvaggia,
ch'aspro il vento rabbuffa e la tempesta.

Striscia di sangue il collo gli viaggia,
che della scure accenna la percossa:
il capo ne vacilla, e par che caggia.


(1) sterpi