Poesia Polacca



OSIP EMIL'EVIC MANDEL'STAM

(1891, Varsavia, muore deportato il 1938 a Vtoraja Recka,
in Siberia)


Poesie tratte da "Cinquanta Poesie"

Un tonfo cauto e sordo -un frutto
dal ramo s'è staccato via-
tra l'incessante melodia
del bosco silenzioso, muto...
(1908)

Splendono di fittizie dorature
nelle selve gli abeti di Natale;
lupi-gioccatolo, fra le ramaglie,
hanno sguardi che mettono paura.
Mia tristezza fatidica, presaga,
mia quiete, silenziosa libertà,
e tu, sempre ridente, là, cristallo
della volta celeste inanimata!
(1908)

Un buio afoso grava sul giaciglio
e respira, con affanno il petto...
forse, più d'ogni cosa prediligo
l'esile croce e una via segreta.
(1910)

O cielo, cielo, ti vedrò nei sogni!
Non sarà mai che tu divenga tenebra
e il giorno avvampi come un bianco foglio:
soltanto un po' di fumo e un po' di cenere!
(1911-1915)


Come un toro a sei ali, minaccioso
gli uomini, qui, la gran fatica assedia,
e in un tugore di sangue venoso
preinvernali fioriscono i roseti...
(1930)


Lo sguardo era acuto, tagliente più di una falce affilata
un vanello in ogni pupilla e una goccia di rugiada;
eppure stentava a discernere, fitta, vasta,
la solitaria moltitudine degli astri.
(1937)




WISLAWA SZYMBORSKA

"Nulla due volte"
(1957)

Nulla due volte accade
né accadrà per tal ragione
nasciamo senza esperienza
moriamo senza assuefazione.

....

Non c'è giorno che ritorni
non due notti uguali uguali
né due baci somiglianti
né due sguardi tali e quali.

....

Perchè tu, ora malvagia,
dai paura e incertezza?
ci sei - perciò devi passare.
Passerai - e in ciò sta la bellezza.
Cercheremo un'armonia,
sorridenti, fra le braccia,
anche se siamo diversi
come due gocce d'acqua.



ADAM MICKIEWICZ

"La tomba della Potocka"
(la Dinastia dei Potocki fece costruire una tomba dedicata ad una loro schiava)

Nella terra della primavera, frammezzo ai giardini voluttuosi,
sei appassita, o giovane rosa! Poichè gli istanti del passato
volando via da te come auree farfalle,
han gettato in fondo al tuo cuore il tarlo del ricordo.
Lassù al settentrione, verso la Polonia scintillano miriadi di stelle;
perchè mai tante ne splendono su quella via?
Forse il tuo sguardo pieno di fuoco, prima di estinguersi nella tomba,
ha acceso là eternamente impronte rilucenti?
O Polacca! Anchio terminerò i miei giorni in solitario rimpianto;
possa gettar qui un pugno di terra una mano amica.
I viandanti spesso parlano presso la tua tomba,
e mi desterà allora il suono della lingua natia;
e un vate un canto solitario, a te pensando,
vedendo la mia tomba vicina, anche a me scioglierà.



Dal romanzo "Androgyne" (1900) dello Scrittore e Poeta Decadente Polacco STANISLAW PRZYBYSZEWSKI. (segnalato da un'utente su Darkitalia)

Dopo aver ricevuto un mazzo di fiori da una sconosciuta,

"Ad un'estremità il nastro portava in lettere d'oro un mistico nome di donna. Nient'altro."

il protagonista rimane ammaliato e inizia ad essere assalito da immagini...

"Chiuse gli occhi ed ascoltò. Vedeva enormi rose favolose, nere, sanguigne, bianche, oscillanti sui lunghi steli, che si curvavano sempre più giù, si rizzavano superbe, tentavano, ridevano, ebbre del loro splendore. Vedeva tuberose, bianche come la stella di Betlemme, dall'esile corpo venato di azzurro - antichissime piante di azalee bianche e rosse, cariche di fiori molli di peluria, sontuosi come ricchi costumi da ballo sulle mirabili forme di nobildonne morte in un tempo lontano. Vedeva orchidee dalle labbra velenose, schiuse in un'ardente sete di voluttà - gigli col grembo aperto da un casto desiderio - narcisi, bioni, begonie, camelie... Tutto un diluvio di colori inebrianti e velenosi, di profumi maliosi e succhianti gli inondava l'anima. Il languido profumo dei lillà di maggio si effondeva in lui con la quieta ingenua infantile serenità dei flauti pastorali in una calda notte di primavera. La porpora delle rose squillava come una fanfara di trionfo, i gigli gli cingevano il cuore con le loro caste braccia, le orchidee lo succhiavano lascive con rosse lingue, le tuberose gli danzavano intorno, in uno splendore bianco e freddo, e, come un afrodisiaco veleno, in lui si spargeva l'ammaliante profumo delle acacie, pregno dei lampi dei temporali d'estate: e tutti quei profumi, freschi e teneri come puri occhi di fanciulla, ignara del suo sesso - brucianti e cupidi, come le braccia di una delirante etera - velenosi e striduli come lo sguardo di una vipera calpestata - si effondevano in lui, lo irroravano, lo saziavano; egli ne era ubriaco, privo di forze; capiva di non aver la forza di muovere un dito, non distingueva più profumi - tutto si era confuso insieme."

Molte pagine dopo, va alla ricerca della sua amante....

"All'orizzonte il mare si gonfiava, folle di potenza, curvava nel cielo il suo grembo, in una mostruosa gravidanza. Ad un tratto tutto l'oceano s'inarcò in una cupola immensa e la liquida volta ondeggiò paurosa sull'isola. Ma la forza che sollevava l'oceano si spezzò di colpo: la cupola di acqua esplose, le pesanti nubi ruinarono con lo schianto e il tuono di mondi che crollano, rimbalzarono, rotolarono sull'isola diluviando - e poi fu la calma. Ma per un istante solo. Il mare ad un tratto s'infiammò. Non fu più mare, fu un ondeggio di metalli fusi, un ribollente vortice di minerali liquefatti, come se la superficie terrestre fosse ritornata liquida o tumultuasse in procelle antidiluviane, in orge convulse. Alla nera volta del cielo zampillavano fantastiche fontane di metallo bollente, per le valli si spargevano torrenti di bronzo, flutti indemoniati di minerali si avvinghiavano in lotta convulsa, sierre di acqua infuriavano in incendii di mondi, e Niagara di fuoco sembravano essersi capovolti e sputare urlanti uragani di fiamme nell'abisso del cielo."

"Che il prodigio si compisse! Egli ed essa dovevano ritornare nel grembo primordiale, per diventare un unico sacro sole. Diventare un'unità indivisibile, guardare coi loro occhi tutti i misteri ignudi e svelati nell'eterna chiarità penetrare tutte le cause, tutti i fini, dirigerli, dominare tutte le terre ed ogni essere col divino senso: LUI-LEI! ANDROGYNE! Lo circonfuse lo splendore di quelle bianche tenere manine, lo penetrò il profumo di quel corpo, nella sua anima esultò il mormorio desioso, tentatore: "Vieni, mio amato, vieni!" Ed egli andò, con in cuore un possente trionfo di morte; andò là, dove il mare dalle sette braccia scintillava nello splendore lunare - andò, sereno e grande, ripetendo soltanto con infinito amore: "Vengo, vengo a te!"