Dino Campana
Tratto da
"Io sono colui che dal dolore ha fatto sangue"
(da una lettera indirizzata a Papini, 1914)
Dino Campana non è un letterato, o per lo meno, non lo è in senso stretto, professionistico, del termine. Egli non ha creato né una scuola né una tradizione; la critica lo ha più tollerato che amato, perché col suo inconfondibile linguaggio e la sua tematica dirompente, infrangeva il quadro ordinato dell'esperienza poetica italiana del Novecento, tutta imperniata attorno ai nomi delle "Tre Corone" (Saba, Ungaretti, Montale), che, confrontati a Campana, fanno la figura di quieti prosecutori della migliore tradizione classica.
(nota di Lunaria: difatti, nei "Canti Orfici" spesso le parole su susseguono una dietro l'altra senza virgole, e questo modo di parlare è tipico degli schizofrenici. è dimostrato che molte persone schizofreniche non solo parlano "in modo strano, senza né capo né coda" ma sono anche particolarmente abili nel dipingere soggetti inquietanti con colori molto accesi. Sul rapporto tra Campana e la sua situazione di disagio mentale, vedi l'approfondimento più sotto).
Dino Campana era nato a Marradi, il 20 agosto 1885, in una famiglia piccolo-borghese. Termina faticosamente il liceo, si iscrive a Chimica all'Università, ma la scelta si rivela un fallimento. Nel 1906 gli viene diagnosticata "una forma psichica a base di esaltazione, per cui si rende necessario il riposo intellettuale, l'isolamento affettivo e morale, l'uso di preparati bromici". Viene anche ricoverato in istituti psichiatrici.
Un aspetto del suo squilibrio appare, agli occhi del mondo, appunto,
la sua irrequietezza, il suo non riuscire a collocarsi in un solo posto, che in lui assume la forma del nomadismo. Nel 1907 parte per la Svizzera, poi Francia e Argentina, senza un soldo in tasca, salendo su un treno alla stazione di Bologna, solo perché era stato preso all'improvviso dal desiderio di fuggire. In Ucraina girovaga con gli zingari. Il suo primo manoscritto letterario, consegnato a Papini e Soffici, direttori di "Lacerba", viene perduto. Campana, alla notizia dello smarrimento, viene colto da una rabbia furibonda, minaccia e aggredisce, e alla fine ricostruisce a memoria i testi perduti, operando modificazioni e miglioramenti: nasce così il testo dei "Canti Orfici". Nel 1918 viene ricoverato all' Ospedale Psichiatrico di Castel Pulci, e non ne uscirà più (Campana morirà il 1° marzo 1932). Per quanto di fronte a una vita del genere si sia tentati di affibiare a Campana lo stereotipo del "poeta maudit", in Campana non è neanche possibile separare del tutto l'eccezionalità della vicenda umana con l'eccezionalità dell'esperimento poetico compiuto: i risultati di questa bruciante fusione fra arte e vita si vedono. In Campana, si assiste quasi allo sguardo del Veggente, un'autentica vocazione visionaria, che scorge ciò che l'essere umano normale o il poeta comune non riescono a scorgere.
Il tramite filosofico e linguistico è l'influenza di Nietzsche, che Campana dimostra di conoscere assai bene, ma anche Whitman e Rimbaud, per una linea di eloquenza dignitosa e malinconica. Campana lavora soprattutto sul tessuto linguistico della poesia: splendido è il gioco di luci e colori, di tenebre e accensioni, di cui è costituito il suo mondo notturno, crepuscolare e aurorale: distese marine sconfinate, città emergenti dalle acque, città turrite isolate in loro secolare silenzio, il tema del viaggio e del ritorno, del ritorno e della partenza, che scandisce una visione pendolare della vita. (Nota di Lunaria: nei versi di Campana troviamo anche di frequente riferimenti alle prostitute, che sono le "nomadi" per eccellenza: nomadi dal loro corpo, ceduto a sconosciuti e dimenticato, nomadi della loro psiche, che dimentica o vaga altrove con la fantasia...)
"La Notte"
Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su una pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell'acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso. [...] Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all'ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carrni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.
Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell'adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole antichissime lungo le mura di chiese e di conventi: non si udiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìo enorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida. Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapide spezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgeva una strada acciottolata e deserta verso la città. [...] Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossastri e scalcinati: egli seguiva, autòma. Diresse alla donna una parola che cadde nel silenzio del meriggio: un vecchio si voltò a guardarlo con uno sguardo assurdo lucente e vuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso molle nell'aridità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica. [...] Si affacciavano ai cancelli d'argento delle prime avventure le antiche immagini, addolcite da una vita d'amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all'infinito, apparendo le immagini avventurose delle cortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loro attitudine di sfingi: e ancora tutto quelo che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a rivivere sul panorama scheletrico del mondo. [...]
Ero sotto l'ombra dei portici stillata di goccie e goccie di luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre [...] Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta "un'ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso." Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggì. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto nascere dall'infinito del sogno. Lassù tra gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchiettìi le mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi, per sentieri di chiarìe salivo:
salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero.
Laghi, lassù tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiare gore i laghi estatici dell'oblio che tu Leonardo fingevi. Il torrente mi raccontava oscuramente la storia. Io fisso tra le lancie immobili degli abeti credendo a tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste forse fissavo le nubi che sembravano attardarsi curiose un istante su quel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le lancie immobili degli abeti [...] E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricordo s'accese la purità della lampada stellare, brillò la luce della sera d'amore [...] Riudivo il torrente ancora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate, lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio [...] Aprimmo le finestre al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina. Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all'infinito sfioriscono bianchezze di trine [...] Fuori è la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti.
"Giardino Autunnale (Firenze) "
Al giardino spettrale al lauro muto
De le verdi ghirlande
a la terra autunnale
un ultimo saluto!
A l'aride pendici
aspre arrossate nell'estremo sole
confusa di rumori
rauchi grida la lontana vita:
grida al morente sole
che insanguina le aiuole.
S'intende una fanfara
che straziante sale: il fiume spare
ne le arene dorate: nel silenzio
stanno le bianche statue a capo i ponti
volte: e le cose già non sono più.
E dal fondo silenzio come un coro
tenero e grandioso
sorge ed anela in alto al mio balcone:
e in aroma d'alloro,
in aroma d'alloro acre languente,
tra le statue immortali nel tramonto
Ella m'appar, presente.
"L'invetriata"
La sera fumosa d'estate
dall'alta invetriata mesce chiarori nell'ombra
e mi lascia nel cuore un suggello ardente.
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende
una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha
acceso la lampada? - c'è
nella stanza un odor di putredine: c'è
nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera
si veste di velluto:
e tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola
ma c'è
nel cuore della sera c'è,
sempre una piaga rossa languente.
"Il canto della Tenebra"
La luce del crepuscolo si attenua:
inquieti spiriti sia dolce la tenebra
al cuore che non ama più!
Sorgenti, sorgenti abbiamo da ascoltare,
sorgenti, sorgenti che sanno
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno ad ascoltare...
Ascolta: la luce del crepuscolo attenua
ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:
ascolta: ti ha vinto la Sorte:
ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte:
non c'è di dolcezza che possa eguagliare la Morte
più più più
intendi chi ancora ti culla:
intendi la dolce fanciulla
che dice all'orecchio: più più
ed ecco si leva e scompare
il vento: ecco torna dal mare
ed ecco sentiamo ansimare
il cuore che ci amò di più!
Guardiamo: di già il paesaggio
degli alberi e l'acque è notturno
il fiume va via taciturno...
Pùm! mamma quell'omo lassù!
(quest'ultimo verso può essere visto come provenisse da un bambino, che assistendo al suicidio di un uomo gettatosi nel fiume, chieda alla mamma di "guardare l'uomo lassù")
"La sera di fiera"
Il cuore stasera mi dice: non sai?
La rosabruna incantevole
dorata di una chioma bionda:
e dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia
imperiale
incantava la rosea
freschezza dei mattini:
e tu seguiva nell'aria
la fresca incarnazione di un mattutino sogno:
e soleva vagare quando il sogno
e il profumo velavano le stelle
(che tu amavi guardar dietro i cancellii
le stelle le pallide notturne) :
che soleva passare silenziosa
e bianca come un volo di colombe
certo è morta: non sai?
era la notte
di fiera della perfida Babele
salente in fasci verso un cielo affastellato un
paradiso di fiamma
in lubrichi fischi grotteschi
e tintinnare d'angeliche campanelle
e gridi e voci di prostitute
e pantomime d'Ofelia
stillate dall'umile pianto delle lampade elettriche [...]
"Il Ritorno"
[...] Riposo ora per l'ultima volta nella solitudine della foresta [...] Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiume docile e valle solo riempie del suo rumore di tremiti freschi, non basta la pittura, ci vuole l'acqua, l'elemento stesso, la melodia docile dell'acqua che si stende tra le forre dell'ampia rovina del suo letto, che dolce come l'antica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali: poiché essa è qui veramente la regina del paesaggio. [...] Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenacia solitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce mi è sembrato il mio destino e fuggitivo al fascino dei lontani miraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzurri: e a udire il sussurrare dell'acqua sotto le nude roccie, fresca ancora della profondità della terra [...]
Non so. Il mio ricordo, l'acqua è così. Dopo gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l'oro crepuscolare, dolce come il canto dell'onnipresente tenebra è il canto dell'acqua sotto le rocce: così come è dolce l'elemento nello splendore nero degli occhi delle vergini spagnole [...]
Tra le rocce crepuscolari una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d'oro [...] O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile e mitica dorata dell'enigma delle sfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognati sulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumi bevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Francesca [...] Quanto tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell'infinità delle morti!
"La giornata di un nevrastenico"
Passeggio sotto l'incubo dei portici.
Una goccia di luce sanguigna, poi l'ombra, poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti.
Scompaio in un vicolo ma dall'ombra sotto un lampione s'imbianca un'ombra che ha le lebbra tinte.
O Satana, tu che le troie notturne metti in fondo ai quadrivii, O Tu che dall'ombra mostri l'infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà della mia lunga miseria!
"Piazza Sarzano"
A l'antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell'aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L'aria pura è appena segnata di nubi leggere. L'aria è rosa. Un antico crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate. Intorno nell'aria del crepuscolo si intendono delle risa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosa tra l'edera che cela una campana [...]